Massimo Domenico Bondone, il racconto di uno straordinario “relittaro” da meno duecento


La scoperta e l’esplorazione dei relitti sommersi è da sempre una delle attività subacquee più affascinanti, misteriose e impegnative che si possano fare in mare. Ci sono alcuni di noi che di questa particolare tipologia di immersione si appassionano talmente tanto da farla diventare praticamente uno stile di vita. I ‘relittari’, i ‘wreck divers’, una categoria di subacquei che insieme agli speleosub contribuisce in maniera determinante allo sviluppo della nostra attività, mettendo a punto e sperimentando attrezzature, tecniche e procedure. La navi affondano dove capita, e quindi spesso ci si trova ad affrontare la sfida di situazioni di immersione non comuni: alta profondità, scarsa visibilità, correnti, tuffi lontano dalla costa, e tanto altro ancora. È una comunità molto estesa, all’interno della quale alcuni personaggi hanno scandito i passaggi più importanti; oggi, non solo a livello nazionale, Massimo Domenico Bondone è senza ombra di dubbio uno dei pochi che ha ottenuto risultati  straordinari in questo campo. Molti i relitti di navi da lui scoperti ed identificati, le documentazioni video, le ricerche storiche, e le immersioni a quote importanti condotte in solitaria fino alla profondità di quasi 200 metri, sempre cercando di portare più avanti il limite del possibile in questo campo tanto pericoloso quanto avvincente. Gli abbiamo chiesto di raccontarci un pò delle sue storie, e vi da meno duecentioncendo una sua sostanziale ritrosia a mettersi sotto i riflettori, siamo riusciti a farci una lunga e interessante chiacchierata.

Massimo, abbiamo seguito le tue esplorazioni sui social network ultimamente, ma ora che possiamo avere uno spazio di discussione diverso, vorrei provare con te a partire dall’inizio. 
Come sei diventato subacqueo, come è partito tutto questo?
Direi che lo sono diventato in maniera naturale. Sono nato e cresciuto a Genova, questo ha avuto un’importanza fondamentale nella mia storia. Era il ’64/’65 (sono classe 1957) e iniziavano a vedersi i primi sub con bombole in giro. Il mare era a un passo dalla porta di casa, per cui mettere una maschera Cressi con il tubo incorporato e il galleggiante quasi impossibile da usare e muovere i primi passi in questo mondo è stato del tutto naturale. Poi iniziai a prendere un pochino di attrezzatura acquistandola da Pesca Sub di Chiappini, il negozio di riferimento per molti all’epoca. A quei tempi a casa di soldi ce n’erano pochini, quindi vendendo cozze raccolte in apnea presi una muta rigida come cartone e poi un bibombola con Royal Mistral finanziato dalle ostriche picchettate sulla nascente diga del porto container di Genova ...
Hai frequentato qualche corso, hai avuto qualche maestro in particolare?
No, corsi niente perche l’unica scuola era quella di Marcante troppo distante da casa mia, senza dimenticare che mia madre non era al corrente di questa mia
attività. Quindi comprai di nascosto il manuale federale di immersione FIPS e mi creai una preparazione teorica approssimata su quelle pagine. Un mio amico apneista più esperto mi aveva dato una “sistemata” nel modo di immergermi e nell’arte dell’assistenza in superfice (lui mi prestava barca e motore e io gli facevo da barcaiolo in cambio), unendo le due cose feci la mia prima discesa con le bombole, a 20 metri da solo. Fango schietto, visibilità pessima ma ricordo ancora oggi la grande soddisfazione provata … pensavo sarei riuscito a diventare come i miti di cui leggevo su Mondo Sommerso!  
Evidentemente fu l’inizio di molte cose. Ora sei uno dei personaggi di punta della scena, fai cose avanzatissime usando la tecnologia dei rebreathers. Cosa ricordi del periodo in cui si andava sui relitti solo usando la comune aria compressa?
Ho molti ricordi di immersioni e relitti fra i 40 e i 70 metri, sempre considerando che nel frattempo avevo intrapreso la professione di Operatore Tecnico Subacqueo in giro per il mondo, arrivando in ultimo alla qualifica di Diving Supervisor. 
All’inizio degli anni 90 però mi resi conto di aver raggiunto un limite. Avevamo esplorato il Bengasi e il San Marco in Sardegna con i miei compagni di immersione Stefano Masala e Enrico Saver. Erano immersioni di 15 minuti di fondo a quasi 100 metri in aria, andammo avanti cosi per un paio di anni poi mi resi conto che, con quei mezzi, non si poteva andare oltre.
Assolutamente, erano già delle esplorazioni ben oltre la norma! Come sei arrivato a fare il passo successivo ed entrare nel mondo della allora appena nata immersione tecnica con miscele?
Fu determinante leggere la meravigliosa rivista americana Aquacorps, diretta da Micheal Menduno e importata e tradotta in Italia da Mario Arena, come anche rinsaldare I rapporti con Stefano Baldi, organizzatore della prima vera spedizione subacquea in Italia, sul Viminale. Dopo aver ben studiato I libri che iniziavano ad arrivare da oltreoceano, mi procurai il programma di decompressione multimiscela Abyss  e a quel punto iniziò un altro capitolo di immersioni più profonde, estese e sicure.
Ti conosciamo nel mondo dell’immersione tecnica come un solitario, non hai mai fatto parte di qulche gruppo, o messo insieme un team?
No, non ci sono mai riuscito, soprattutto perché ogni volta che dicevo a qualcuno quali erano i miei progetti e proponevo una collaborazione mi davano del matto!
Dopo qualche anno sei poi arrivato al rebreather...
Si, e devo dire che è stata una vera e propria ripartenza. Fino al 2004 mi ero dedicato all’esplorazione dei relitti profondi nella Sardegna meridionale e nella zona di Genova. Davanti casa, in senso letterale della parola, ne avevo trovati ed identificati alcuni, facendo immersioni in trimix intorno ai 100 metri con tempi di fondo fino a 50 minuti, piuttosto importanti dato che usavo ancora il circuito aperto. Assieme agli amici di relitti.it, il noto sito dedicato alla catalogazione degli scafi sommersi, avevamo prodotto una grossa mole di documentazione su quei siti, ma le spese di gestione (carburante, gommone e gas respiratori) erano diventate ingenti, cosi  cercammo qualche sponsorizzazione. Quando si resero conto che tutto veniva svolto usando un gommone, senza grandi barche appoggio e mezzi spettacolari, ci vennero negate! Avevo di nuovo raggiunto un limite, e questa volta presi la decisione di lasciar perdere tutto e chiuderla lì… poi però nel 2009, dopo tre anni di fermo totale, mi rimisi in gioco con il rebreather. Fu un vero ricominciare da capo, con più di ottanta immersioni in un solo inverno sulla Haven, una nave che diventò la mia palestra ideale, appoggiandomi ad un diving di Arenzano. Ho usato e uso ancora il Megalodon, pure essendoci ormai macchine in un certo senso più avanzate, lo ritengo ancora il migliore per le profondità delle mie esplorazioni e l’affidabilità generale.
C’è qualche attrezzatura oltre il rebreather a cui sei particolarmente legato, che continua ad essere parte del tuo modo di andare sott’acqua?
Senza dubbio i miei erogatori! Mi porto in giro da tanti anni una quindicina di MK5 Scubapro, continuano a seguirmi ovunque, fra bombole appese alla cima e quelle che mi porto addosso come di bail out. Li revisiono personalmente come tutta la mia attrezzatura e continuano a funzionare benissimo, tutti tranne il mio primo, l’ho portato in mare per talmente tanti anni che i punti di saldatura si sono dissolti e mi si è praticamente disintegrato in bocca!
Di tutti i relitti che hai esplorato, trovato ed identificato, quali ti sono rimasti particolarmente cari, a prescindere da tutto?
Sicuramente il Mohawk Deer, famosissimo relitto naufragato sul Monte di Portofino, e’ stato la palestra per immersioni assai formative; oggi lo vedo con occhi diversi, ma all’epoca era davvero come se fosse appena affondato, almeno per me! Poi l’ U Boot U455 a Portofino, su cui feci la prima identificazione certa e che fu in parte il motivo del mio ritorno all’attività.
Un lavoro sviluppato con AIDMEN, Associazione Italiana Documentazione Marittima e Navale, con la quale collaboro da allora per le mie ricerche storiche. Per ultimi direi il Kreta e l’ HMS P311, il primo perchè è una nave unica, ne sono state costruite pochissime in tutta la 2a G.M., questo è l’unico esistente visitabile da subacquei; erano delle navi picchetto radar per guidare i caccia notturni tedeschi, il Kreta era il punto di riferimento per le operazioni in Mediterraneo, una nave armatissima con un sistema radar all’avanguardia.
Assieme al Brandenburg, con cui ha condiviso la stessa sorte (affondato nei pressi a 195 metri e da me parzialmente esplorato nel 2017), si trova tra l’isola di Capraia e la costa.
Una grande soddisfazione trovare una nave del genere, ho realizzato una bella documentazione video che si può vedere, insieme a molte altre cose e progetti, sulla mia pagina Facebook.
Del P311 ti racconto dopo, mi ha dato sensazioni del tutto diverse da queste appena descritte, va tenuto separato essendo un caso unico.
Come procedi nella fase di ricerca dei relitti da esplorare?
Vorrei chiarire che la ricerca di relitti sommersi nel nostro paese è compito riservato alle AA preposte, quindi quando usiamo il termine, dobbiamo vederlo in campo storico e come raccolta di dati già esistenti. Semplicemente sfoglio uno dei tanti database disponibili sul web, poi inizio a raccogliere e scremare le informazioni che si trovano in merito, sempre su Internet. Mi confronto con i dati raccolti dai miei amici di Relitti.it e i loro libri pubblicati dalla Magenes divisi per regioni geografiche.

Poi le carte dell’Istituto Idrografico della Marina con cui collaboro da svariato tempo, e in ultimo le informazioni dei pescatori in zona e alcuni storici specializzati in navi mercantili e militari. Con le moderne tecniche di pesca, praticamente non esistono quasi più relitti realmente sconosciuti, se è ferro qualcuno vi ha lasciato la rete, prima o poi, per cui la ricerca “pura” nelle nostre acque è quasi inesistente-
Ci sono dei subacquei che stimi particolarmente e sono stati anche un ispirazione per il tuo modo di andare sott’acqua?
Non ho miti da seguire in questo mondo, ne ho nell’ alpinismo ma è un discorso personale lungo da affrontare. Ho grande stima per Luigi Casati, con il quale condivido alcune riflessioni e l’approccio all’esplorazione. Come tutti sanno, è uno dei maggiori speleosub a livello mondiale, posso dire che mi sono trovato spesso a condividere, pur non essendoci mai visti in persona, alcuni elementi del suo percorso umano e sportivo. Cosi come ho rispetto per un altro grandissimo speleosub: Hasenmayer, ha aperto la strada alle immersioni profonde in miscela autogestite in grotta. È stato un pioniere nel senso più vero della parola, tutti gli dobbiamo qualcosa in un certo modo.
Ultimamente proprio leggendo alcuni scritti di Casati, riflettevo sul fatto che, dopo tanti ann,i ti senti come se stessi arrivando alla fine di un percorso lungo il quale hai dato  molto e pensi sia assurdo debba finire cosi, senza nessuno che porti avanti quello per cui hai speso una vita intera. In una conversazione su FB, dicevo non c’era nessuno a cui passare il testimone per proseguire l’attività esplorativa, non volevo finisse tutto cosi, come spegnere un interruttore, ...Luigi rispose che poteva non essere come pensavo, semplicemente non lo avevo ancora incontrato, per cui ... chissà cosa riserva ancora il futuro !
Come ti prepari per le tue immersioni a quote estreme?
Mah, in realtà non faccio molte immersioni ogni anno. Direi più o meno 20 / 25 tuffi in tutto. Le prime le faccio a profondità crescente dai 25 ai 200 metri di fondo, provando di volta in volta il funzionamento di tutto e le mie reazioni.
Di cosa hai paura quando sei a quelle quote da solo?
Direi che esiste una paura irrazionale e una molto più concreata, vanno tenute entrambe in giusta considerazione ma in modo diverso. La mia paura irrazionale è quella della pallonata incontrollata in superfice. Con i carichi di gas inerte delle mie immersioni sarebbe inevitabilmente un evento fatale. Mentre la paura razionale che ho dovuto affrontare più volte è quella di perdere la cima di risalita e il gommone. Le mie sono esplorazioni in solitario e spesso in passato le ho dovute condurre senza nessuno a bordo. Non ritrovare il gommone sarebbe stata un’evenienza dalle conseguenze preoccupanti ...
E la paura più grande che hai vissuto in immersione?
Al centro Bondone
Sicuramente in Liguria, mentre facevo un immersione al largo della Punta del Faro di Portofino. Scendevo sotto il faro e proseguivo verso il largo, seguendo una serie di scogli separati tra loro. Ero in aria con un bibombola dieci più dieci e una piccola pony tank da 4 litri, girando attorno ad una roccia sui 70 metri, mi ritrovai completamente avvolto da una rete da pesca quasi invisibile.  Per fortuna la rete si lacerava facilmente con le mani, ma mi ritrovai senza più aria, con tutti i manometri a zero… Feci una pallonata controllata, senza panicare e recuperando un pò di aria man mano che la pressione ambiente diminuiva, premendo il bottone di erogazione manuale del 2° stadio. A quel punto la faccenda prese una piega quasi comica …  affioro ovviamente molto distante dal gommone ormeggiato, per fortuna passa un tipo con una barchetta che strabuzza gli occhi nel sentirsi chiedere chiede un passaggio verso terra … feci subito una ricompressione in acqua respirando ossigeno puro da un narghilé sempre pronto a bordo e fu la decisione giusta, non so in quali condizioni sarei arrivato alla camera di decompressione a  Genova! Un passaggio importante questo, mi fece radicalmente cambiare  approccio al volume del gas trasportato in immersione. Anche oggi con il rebreather utilizzo bombole da quattro litri nei tuffi profondi. Chiamiamolo un portafortuna, fin’ora non l’ho mai dovuto utilizzare e speriamo continui così.
Quale è stato il relitto più profondo che hai esplorato?
Il Brandemburg a 195 metri di profondità, il relitto vicino al Kreta menzionato prima, un grande posamine di oltre 100 metri di lunghezza. Un ambiente estremo e molto difficile, buio con molte lenze e reti, strutture poco riconoscibili a prima vista,una situazione veramente al limite sopratutto per il limitato tempo di fondo disponible e le difficili condizioni operative, mare e corrente in primis.
Le tue decompressioni logicamente esulano totalmente dal normale contesto delle immersioni tecniche. Come le gestisci e in base a quali linee guida?
Non mi va di parlarne troppo, spesso discutendo di queste cose si finisce per innescare delle dinamiche poco simpatiche, invece di confronti seri e costruttivi. Pensando a quelle impegnative (quindi alle massime quote che ho raggiunto e con tempi di fondo “interessanti”), devo mettere in piedi una decompressione che non vada troppo oltre le sette ore in acqua. Più di quello sarebbe per me veramente difficile da gestire e devo sempre considerare  l’elemento più critico, lo sviluppo di una patologia da decompressione in risalita, con l’obbligo di dover mettere rimedio senza poter riemergere. Lavoro molto quindi sulle finestre di ossigeno, un pò come se stessi in circuito aperto, simulando ipotetici cambi di gas a varie quote variando la pressione parziale. In questo il rebreather è l’arma vincente, oltre al fatto di consentire permanenze in acqua impensabili usando il circuito aperto..
Come ti regoli invece per la penetrazione all’interno dei relitti che stai esplorando?
In questo campo entra in gioco il fatto che conosco bene le navi, sono state il mio ambiente di lavoro per molti anni  e la Haven è stata un’ottima maestra in questo. Sono quasi sempre in grado di capire dove sono e da che parte andare, anche in ambienti molto grandi, per cui non entro mai sagolato; inoltre, essendo un solitario, non devo fare i conti con la sospensione alzata da altri subacquei, un vantaggio non da poco!
In questi anni, anzi in questa vita dedicata al mare e all’esplorazione dei relitti sommersi, quali sono stati i tuoi maggiori momenti di soddisfazione, c’è anche qualcosa che ti manca?
A pensarci bene mi manca molto la soddisfazione che si prova quando si gode di un bel tuffo, andando a mare con gli amici, assaporando il dopo immersione con i gommoni affiancati, si aprono frigoriferi e ombrelloni e ci si rilassa! Ho sempre una logistica molto serrata, dalle quattro di mattina fino alle nove di sera, è poco il tempo per godere il mare, ti parrà strano ma questa cosa davvero mi da fastidio, in fondo non mi ritengo un subacqueo “puro”, bensì un amante del mare a tutto tondo.
Una soddisfazione grandissima mi è arrivata anche con la scoperta e identificazione del sommergibile inglese HMS P311, a levante di Tavolara in Sardegna.  È stata una cosa che ha fatto velocemente il giro del mondo, una notizia riportata ovunque, pensa ci sono circa una trentina di pagine su Google dedicate a questa scoperta tutte da fonti diverse! Ma quello che mi ha veramente emozionato è stato come alcuni tra  i parenti dell’equipaggio fossero ancora in contatto fra loro e, appresa la notizia tramite la Associated Press, dopo nemmeno ventiquattro ore erano tutti al corrente del ritrovamento. Pensa all’emozione suscitata da questo passaparola, conoscere anche se solo virtualmente persone che per tutto questo tempo sono rimaste connesse con questa memoria storica e familiare è stata una gran cosa. Alcuni di loro, provenienti da diverse nazioni molto distanti, si riunirono per una breve commemorazione privata proprio sulla verticale del relitto nel 2017.
Un ultima domanda. Quale sarebbe il tuo sogno dopo tutti questi anni di immersioni? Vedere un posto che non hai mai visto, un viaggio che non hai fatto, un relitto che non hai trovato?
No, niente di tutto questo. Il mio sogno a questo punto sarebbe avere una vera barca per il wreck diving, attrezzata con la giusta strumentazione e un team di persone motivate. Ecco, questo sarebbe il mio sogno, penso mi permetterebbe di poter continuare ad andar per mare anche se smettessi di immergermi e passare quel famoso testimone.
Vorrei aggiungere ancora qualche riga su come ho fatto tutto questo … con un semplice gommone, abbastanza grande da potermi permettere di viaggiare per tutto il Tirreno, accompagnandomi in oltre 25.000 miglia di navigazione tra Sicilia Sardegna, Corsica, Francia e il resto delle isole e coste tirreniche. Fu l’amico Andrea Ghisotti a contagiarmi, lui già lo faceva da anni, praticando il campeggio nautico in autonomia; io ampliai l’idea allestendo una “mini Calypso” gonfiabile, dal 1995 a oggi fedele compagno di viaggi e immersioni.il nome è piuttosto scontato … Wreck Diver, con tanto di targa lignea verniciata! Ultima chicca, doverosa considerando l’ambito in cui viene letta questa conversazione, I libri di mare.
Ho una piccola collezione che ogni tanto amplio, ultimamente ho acquistato tutto quello che è disponibile sull’ HMS P311, sia per documentarmi sia per soddisfazione personale.Ma … tengo molto a due pezzi, uno è l’edizione originale di Naumachos, scritto da Stefano Carletti, testo per molti versi ancora oggi attuale, ristampato da Mursia nella collana “Sempre Blu”, apparteneva a Ghisotti, quindi assolutamente incedibile!
L’altro è un libro trovato per puro caso alla Libreria il Mare parecchi anni fa, quando ancora era in Via Ripetta; ero in transito a Roma con un ritardo biblico, in attesa del volo successivo feci un giro in libreria, dove mai ero stato.Trovai Marco Firrao e Giulia D’Angelo, chiesi se avevano qualcosa di inusuale da propormi (mi rendo conto ora quanto fosse strana la mia richiesta ...).  Mi fu detto … butta l’occhio sui piani alti (te pare facile pensai, I libri arrivano al soffitto!)
Beh, c’era una copia in lingua originale di “Buceando entre las orcas” autore Ramon Bravo … lo sfoglia e vidi Bruno Vailati come coprotagonista quindi lo comprai al volo compreso un mini vocabolario per aiuto alla lettura !.
Dopo tanti anni mi ritrovo virtualmente di nuovo in Libreria il Mare, chi l’avrebbe mai detto !
Paolo Barone