L’informazione negata: un’immersione nel profondo della nostra storia più recente


Correva l’anno 1981 quando con Uliano Lucas concepimmo e realizzammo in un’Italia e in un mondo molto diversi da quelli di oggi la mostra L’informazione negata, il Fotogiornalismo in Italia 1945-1980. Su iniziativa di Maruzza Capaldi la presentammo alla Pinacoteca Provinciale di Bari, era accompagnata da un catalogo che portava lo stesso titolo. Dopo l’esposizione la donammo alla Galleria Civica di Modena dove ha dormito per quasi quarantanni.
È stata ritrovata così oggi è riproposta a cura di Fausto Ferri nella sua versione originale fino al 18 settembre nel Festival dell’Unità di Modena  con un nuovo titolo: Dall’informazione negata all’informazione annegata, il passato prossimo e il futuro del fotogiornalismo. È sicuramente un argomento fuori tema rispetto ai contenuti che caratterizzano il nostro Maremagazine, però ugualmente ho il piacere di proporvelo, non soltanto come autore, ma soprattutto perché si tratta di una “immersione” non nel blu ma nel profondo della nostra storia. Un’immersione dedicata ai giovani nati in quegli anni. Michele Smargiassi lo spiega nell’introduzione alla mostra.


Riproporre la mostra oggi nella sua versione originale, tuttavia, non è un esercizio di archeologia. Lo scarto di tempo che ci separa da quel primo tentativo di storia del fotogiornalismo italiano contemporaneo equivale grosso modo all’arco di tempo di cui la mostra si occupa: dal 1945 al 1980. Il mestiere dell’occhio testimone ha dunque percorso, da allora, altrettanta strada, ha raddoppiato il suo cammino. Proviamo allora a ripiegare questo secondo tempo sul primo, per capire che cosa è cambiato, se le premesse e i giudizi che questa mostra proponeva hanno resistito al tempo, se le previsioni che avanzava si sono avverate o sono state smentite dal tempo. Il fotogiornalismo ha resistito? È ancora una “informazione negata”? Non è piuttosto, ormai, una informazione annegata nell’alluvione disordinata dei nuovi media orizzontali? Pessimista nelle analisi, combat-tiva nella difesa della missione del fotoreporter, questa mostra è una dichiarazione di amore e di orgoglio verso un “mestiere della notizia” tanto nobile quanto bistrattato. “È l’era dei due soldi di speranza: il fotoreportage uscirà dall’esclusione?” si chiedevano allora i curatori. Quarant’anni fa il fotogiornalismo, per quanto si sentisse ferito, non voleva morire. Oggi è ancora vivo? Quanti soldi di speranza ha ancora in tasca? Anno 1981. L’inflazione supera il 20 per cento. Una setta massonica segreta chiamata P2 gioca a dama con il potere. Le Brigate Rosse rapiscono il giudice D’Urso, il politico Cirillo, l’ingegnere Sandrucci, il generale Dozier, ammazzano il medico Marangoni, il vicequestore Vinci, l’agente Cinotti, Roberto Peci fratello di un “pentito”, il manager Taliercio. Anche i Nar neofascisti sparano e uccidono. Papa Wojtyla va in montagna a sciare, poi gli sparano in piazza San Pietro. 
Lo scandalo del banchiere Michele Sindona travolge il Vaticano. Il referendum contro la legge sull’aborto è re- spinto dagli italiani. Muore Eugenio Montale. Il segretario del Pci Enrico Berlinguer prepara il discorso in cui dichiarerà esaurita la forza propulsiva della rivoluzione bolscevica. Tutti assolti al processo per la strage di piazza Fontana. Alfredino Rampi cade in un pozzo e muore in diretta Rai. Il 1981, l’anno in cui questa mostra vede la luce, non è un anno qualunque, non è un anno tranquillo. L’Italia è un paese aggredito su molti fronti. Il mondo dell’era Reagan non è da meno. Il bisogno di sapere per conoscere e per giudicare sembra urgente. I giornali raccontano quell’Italia in bilico. Ma lo fanno sempre più “alla cieca”. Con molte parole e poche immagini. Questa mostra lancia allora un grido di allarme: sulla stampa “la fotografia è solo tappezzeria per dare aria alle colonne di piombo”. È una mostra militante, di denuncia, non solo una rievocazione storica. La vicenda dei precedenti quarant’anni di fotogiornalismo viene ripercorsa alla luce della “condizione di subalternità e sottocultura dei fotografi ”. Dalla breve stagione di libertà dell’immediato dopoguerra, quando le fotocamere scoprirono un’Italia invisibile, nascosta dal ventennio fascista, al veloce ritorno sui rotocalchi della fotografia narcotica e artificiosa, quella con i matrimoni dei re, le bizze dei divi del cinema, la politica come scalata di volti di potere. La fotografia come decorazione innocua di un paese rassegnato al “dire e non dire” che è poi il linguaggio della sua politica.