La spinta della nostalgia per scrivere il mare

Quando e come nacque il “Breviario Mediterraneo” di Matvejevic? Voglio condividere con voi l'incontro che ebbi con Predrag a Kolocep in Dalmazia dove passava le vacanze estive. Sedevamo in un caffè di fronte al mare e quasi a bruciapelo chiesi: “Quando dal mare può nascere l’ispirazione?”
«Parlo naturalmente per me. La risposta è in una parola. Nostalgia, la cui radice greca è algos, dolore di essere fuori. Poi c’è l’esilio…»
Nostalgia di quale mare?
Come in greco, mare si può dire in almeno quattro modi diversi con altrettante sfumature, così nella nostra percezione ci sono tanti “mari”. Ce n’è uno che è già scritto dentro di noi, un archetipo, pensi all’innata paura del naufragio… poi quello che ci inculcano o ci trasmettono… quello che sogniamo o desideriamo e, infine, quello dolce che incontriamo
immergendoci nell’acqua salata. Quando ho iniziato a scrivere ho sempre cercato l’avverarsi di quello che io chiamo evento, l’incontro cioè di un mare con l’altro.
Ritrovare ciò che è già in noi o abbiamo sognato nella realtà. Due, più mondi, s’incontrano. Ma il cammino è lungo e… come le dicevo, nulla sarebbe avvenuto senza una spinta potente come la nostalgia
Mi parla di quando in lei nacque l’idea del mare?
Quando ero bambino non lo conoscevo. Nacqui a Mostar nell’entroterra. Lì c’è solo un fiume, la Neretva. Mio padre mi raccontava del Mar Nero, il vello d’oro, gli Argonauti, la sua Odessa. Un esule parla sempre della patria da cui è partito, del paesaggio perduto, dei venti, delle spiagge dove si è bagnato. E mio padre non si stancava mai di raccontare. Con quelle parole imparavo il russo e il francese che si parlava in tutte le famiglie aristocratiche. Il mare entrava in me come una lingua amata e perduta… e io fantasticavo, deformavo la realtà, marcavo l’animo di indelebili impronte»
Cosa è successo quando l’hai visto per la prima volta?
Avevo tre o quattro anni, ci trasferimmo per qualche tempo in Dalmazia a Sebenico. Qui acquisii un repertorio diverso di odori e sapori. Mi resi conto della differenza del cibo che mangiavo a Mostar. Cominciai ad odiare la carne. Volevo il pesce. Imparai a nuotare. Cercavo le mie immagini del mare. E, talvolta, non riuscendo a trovarle, anche se ero inesperto, mi tuffavo giù sempre più in fondo. Cosa fai? gridava mia madre. Io andavo sott’acqua, forse erano nascoste lì. Tornai a Mostar, realtà e fantasia iniziarono a fondersi. Ma non bastava più. Volevo tornare al mare. Ma quale? Mi consolavo tuffandomi dal vecchio ponte, osservavo l’acqua, divenuta il mio elemento. Imparai a riconoscere i gabbiani che arrivavano sin qui dalla costa. Compresi che anche il Mediterraneo – così come i miei pensieri – non si fermava alle sue sponde, i suoi confini erano molto più estesi…»
Hai continuato a cercare?
«Si. L’istinto per quella ricerca di cui io neppure avevo consapevolezza mi spinse a navigare. Avevo uno zio marittimo, una gamba più corta dell’altra. Lavorava sulle barche alle foci della Neretva. A sedici anni andai a trovarlo, mi introdusse nel suo ambiente. Facevo piccoli lavori sulle barche da pesca. Nel dopoguerra si pescava con la dinamite. Portavo quei pesci gonfi dalle esplosioni a terra con dolore… inutili agnelli sacrificali. Poi imbarcai come mozzo su una nave che pescava a strascico.
Da noi si dice cocia. Albe, tramonti senza mai riposare, pasti frugali tra una cala e l’altra. Si beveva acqua delle sorgenti vicino al mare, mischiata a vino, per non sentirne il sapore salmastro, poi pesce su una graticola improvvisata. Imparai le bestemmie dalmate, le peggiori di tutto il mondo. Poi un giorno scappai su un veliero che andava in Grecia, lì conobbi le grotte sottomarine, come cambia la luce dentro di esse. Il mare vero, le sue meraviglie mi pulsava nelle vene»
Allora iniziasti a scrivere?
«Si. Ma qualche poesia. Breve. Scrivevo del vento, dei ciotoli che trovavo sul greto delle spiagge, della volontà e della sensazione che si prova a tenerli nel palmo della mano. Frammenti. Li serbavo, senza accorgermene. Vennero fuori un giorno con violenza, l’urto di un onda».
Quando?
Molti anni più tardi a Parigi. La nostalgia s’insinuò con una pioggia, sottile, battente. Grigia. Non era quella di nessuno dei miei “mari”. E io lo sapevo. Quella nostalgia si era intrecciata alla tragedia che viveva il mio paese, il mio esilio. Un esule, figlio di esule. Quante fratture! Solo lì mi ritrovavo, nei miei mari. Nel mio unico mare. Ora ciascuno e tutti mi appartenevano. Li ritrovai. Così iniziai a scrivere.
Nicolò Carnimeo
Docente universitario e scrittore
Insegna Diritto della Navigazione e dei Trasporti