Marausa: un puzzle di settecento pezzi da riassemblare

Novembre 1999, novembre 2016, diciassette anni passati tra il ritrovamento e il restauro:  “Tutti i legni della nave di Marausa sono stati depositati presso il Museo Archeologico Regionale Lilibeo di  Marsala, Baglio Anselmi. A breve avrò le somme per montarla. Sebastiano Tusa.” Con questo sintetico messaggio il direttore della Soprintendenza del Mare Regione Sicilia mi ha confermato che finalmente i settecento pezzi, ovvero quel che resta della grande nave oneraria romana lunga più di venti metri e larga nove naufragata il terzo secolo d. C. e individuata casualmente nel 1999 nelle acque basse del mare di Marausa, poco distante da Marsala, sono tornati a “casa”, il sito più logico vista la vicinanza tra luogo del
rinvenimento e Museo. Così tramontate definitivamente le ipotesi alternative per collocarli, il Museo
ex Stabilimento Florio di Favignana e la Colombaia di Trapani (ne parlammo in un nostro precedente post di due anni fa) ancora due o tre mesi di paziente attesa e vedremo le tessere di questo gigantesco puzzle montate ognuna al suo posto e ammireremo una nave romana “porta container” ante litteram a fianco della nave punica esposta nello stesso Museo, quella individuata trent’anni prima nel 1969 sempre nelle acque dello Stagnone di Marsala e recuperata tra il 1971 e il 1974 dall’archeologa inglese Honor Frost. Se n’è conservata la parte poppiera e la fiancata di babordo (per circa 10 metri di lunghezza e 3 di larghezza) e le parti recuperate hanno permesso di studiare la tecnica molto particolare usata dai punici per la fabbricazione delle navi. Consisteva nel costruire pezzi singoli, dei “prefabbricati”, che venivano segnati con lettere e segni particolari, creando una sorta di puzzle, che permetteva in modo semplice e veloce il riassemblaggio. Tecnica poi copiata dai carpentieri romani…
Anche se ci sono ancora molte dispute fra studiosi e ipotesi per stabilire se fosse veramente una nave da guerra, a noi piace pensare che la nave rappresenti un’importante testimonianza della Prima Guerra Punica, che fosse lunga 35 metri, larga 4,80 per 120 tonnellate di stazza, e che i 68 vogatori, 34 per lato, che azionavano i 17 remi di ogni fiancata erano capaci di lanciarla alla “straordinaria” velocità di 8 nodi contro le navi le navi nemiche.
Anche per la nave romana – senza ombra di dubbio oneraria – si è trattato di un ritrovamento eccezionale sia per le dimensioni sia perché era a “portata di mano”, alla profondità di non più di due metri e a pochi passi dalla spiaggia, e per ultimo era anche in ottimo stato di conservazione perché ricoperto da una spessa coltre di  matta di posidonia che per secoli, crescendovi sopra, aveva sigillato il sito e ne aveva permesso la conservazione. Queste le circostanze che hanno restituito il relitto, sul fondale era aperto come un libro, ben conservato soprattutto nella parte centrale, mentre non lo erano molte ordinate e il fasciame esterno era aggredito dalla teredine (Teredo navalis), il mollusco marino che si nutre del legno scavando gallerie all’interno dei legni sommersi.
S. Tusa e il direttore del Museo Enrico Caruso
Dei 700 pezzi che lo componevano il più piccolo misura 10 cm per 40 cm di lunghezza, lo spessore è di 2,5 cm, il più grande, la chiglia, ha una sezione di 25 cm per 30 cm ed è lunga 10,5 metri in tutto il ritrovamento misura 13,13 metri per 8, la particolarità è il numero rilevante di ordinate: quaranta con una sezione media di 15 per 15 cm, erano talmente tante che quasi si toccavano, infatti, tra un ordinata e l’altra c’è poco più di 10 cm, lo spazio per infilare una mano. Il lavoro di recupero vero e proprio, iniziato nel 2011, fu affidato a Legni e Segni della Memoria, il laboratorio specializzato in restauro dei legni bagnati, con la direzione di Giovanni Gallo che con una sinergia mai messa in campo, organizzò archeologi e restauratori insieme per “smontare” i resti dello scafo in mare. L’innovativo e rivoluzionario sistema per il recupero dei legni bagnati legato al sistema di essiccamento che avviene con camere ipobariche funzionanti in sottovuoto messo a punto nel laboratorio salernitano è descritto nel dettaglio nel nostro precedente servizio che abbiamo pubblicato nell’ottobre 2012.
La nave punica
Eccoci al 2016. Dopo cinque anni di restauro i legni impregnati ed essiccati sono pronti per essere montati. Sono protetti con la cera d’api in essenza di trementina, il loro profumo pervade l’ambiente del Museo, l’aspetto è davvero naturale, è piacevole guardarli e soprattutto toccarli. Chissà invece quando potremo toccare i legni di altri relitti. Come il relitto romano del V secolo d. C. scavato sedici anni fa nel Parco Teodorico di Ravenna. L’archeologo Stefano Medas che partecipò ai lavori di recupero, mi conferma che giace ancora dentro il suo guscio di gomma siliconica e vetroresina, senza aver subito trattamento conservativo, così come lo hanno lasciato. Se ne sono perse le tracce, sembra sia conservato presso il centro di restauro di Comacchio dove fa il paio con la Fortuna Maris, altra nave romana fine primo secolo a. C. scoperta nel 1980 anche questa racchiusa in un unico guscio di vetroresina. Per i due relitti il solito laboratorio Legni e Segni della Memoria di Salerno ha presentato i progetti di recupero. Noi siamo sempre in attesa di conoscere la sorte di questi tesori, senza dimenticare anche quelli di Napoli, di Roma e di Pisa…
Mau. Biz. 
 Nelle foto della Soprintendenza del Mare le operazioni di scarico dei legni

Nel sito ilmare.com troverete due libri che parlano del relitto della nave punica
http://www.ilmare.com/search.php?q=nave+punica