In merito alla valorizzazione storica, archeologica e etnografica, ha sviluppato i temi connessi al patrimonio materiale e immateriale legato alle realtà marinare siciliane. Dalle decorazioni tradizionali, e non solo, si evince la persistenza di elementi arcaici entrati a far parte di una “lingua del mare” elaborata nel corso dei secoli e che continua a vivere ancora oggi.
Le scelte
scaramantiche dei marinai, che stabiliscono – da sempre – un rapporto particolare con la barca,
considerata quasi una creatura vivente, hanno consentito la diffusione di usi e
costumi, testimoniati dal largo impiego di giochi cromatici atti a
personalizzare lo scafo con una gamma di colori che va dal rosso, al blu, al
verde, al bianco, al nero, entrati a far parte di quella “lingua del mare”
elaborata nel corso dei secoli. Un’arte antica, quella della coloritura dello
scafo che completava l’apparato costruttivo della barca, mentre la protezione
divina veniva richiamata fin dalla messa in opera dell’ossatura portante, attraverso
un sistema di incroci che richiamava la croce di Gesù. Le decorazioni delle
barche siciliane, dunque rappresentano il mezzo per esorcizzare la paura facendo
ricorso a disegni-amuleti, che concorrono ad aumentare la solidità e la
governabilità della barca. Il ricco repertorio di segni impiegati per decorare
le imbarcazioni rimanda a significati simbolici rimasti straordinariamente
inalterati nel tempo.
Ad ogni tipo di
imbarcazione, a seconda della destinazione d’uso, erano riservati particolari
corredi figurativi benauguranti. Le tavole a prua e a poppa accoglievano
simbologie variegate, le fiancate invece rimanevano colorate a fasce per
distinguere semplicemente la parte che restava emersa da quella immersa in
mare. I pittori di mestiere non appartenevano alla società marinara, ma erano
contattati all’occorrenza per la loro maestria nelle raffigurazioni tipiche della
cultura popolare siciliana. Spesso dunque gli ornamenti erano gli stessi che si
vedevano negli strumentari dei lavori rurali e artigianali, con l’eccezione di
alcuni soggetti specifici come, per esempio, la sirena, la ballerina o ancora
il cavallo marino.
Il cavallo
disegnato sulle barche tradizionali siciliane risulta però particolare,
assumendo le sembianze di un ibrido cavallo/gambero, dove si distingue una
criniera che fa da cresta ad un collo che spesso si imbottiglia in un corpo di
gambero con zampe filiformi, e la coda a scaglie raggomitolata in due spire.
Raffigurazioni simili si ritrovano anche sui carretti siciliani di varia epoca,
un simbolo che è allo stesso tempo terrestre e marino, drago-cavallo-gambero
insieme.
La predilezione per il decoro con cavallo marino potrebbe trovare
spiegazione nei poteri magici che la medicina popolare attribuiva al
cavalluccio marino (hippocampus),
considerato dai pescatori anche un potente amuleto contro diversi malefici.
Giuseppe Pitrè, uno fra i più importanti raccoglitori e studiosi di tradizioni
popolari siciliane, descrisse la pratica popolare che ne decretava l’assunzione
ad amuleto, scrivendo che : “pescato in
un giorno di venerdì, a mezzanotte in punto,il cavalluccio marino si avvolge
con tre nastri, uno rosso, uno bianco, uno giallo... e possibilmente nello
stesso giorno o in un altro venerdì si va a battezzare. Il battesimo si fa
nella chiesa albanese dei Greci a Palermo, con la massima segretezza, senza che
lo sappia o se ne accorga anima viva”. I tratti figurativi stigmatizzati
del cavalluccio si sono mantenuti nel tempo senza cedere ad interpretazioni
figurative più realistiche, a differenza di altri soggetti, anch’essi di antica
tradizione.
Si pensi alla
sirena raffigurata con le sembianze per metà femminili e per metà di pesce, che
via via nel tempo subisce alterazioni e aggiunte iconografiche, come nel caso
della sirena in atto di suonare la tromba. Altri simboli molto comuni erano il delfino,
il cuore, la stella, che con il passare
del tempo hanno assunto un rappresentazione più realistica. Solamente l’occhio,
che nel siracusano viene denominato “occhio
fenicio”, rimane quasi del tutto invariato nel tempo.
Quale organo della
percezione visiva, l’occhio è il simbolo universale della conoscenza inteso nel
senso più largo del termine. Nel Mediterraneo si trova infatti una
documentazione che ne attesta l’impiego, già a partire dall’epoca arcaica, in
ogni contesto sia nell’iconografia di ambito fenicio-punico quanto in quella
greca e in quella romana, occhi sulle navi da trasporto e in quelle da guerra.
La forma dell’occhio assume aspetti diversi a seconda delle regioni e dei
popoli che lo raffigurano a volte con sembianze antropomorfe, altre come un
disco colorato o in forma di triangolo o di stella, o ancora più semplicemente
rappresentato da un punto, bianco o più frequentemente rosso, per aumentarne la
potenza apotropaica. In questo modo l’imbarcazione era resa, secondo le
credenze popolari, magicamente viva e in grado di evitare i pericoli. È da
notare inoltre come nella cultura marinara sia lecita – se così si può dire – l’associazione
di simbologie profane e religiose, che si evidenzia un po’ ovunque, ma in
particolare sulle barche siciliane, dove ad esempio l’occhio della barca
convive con cavalli marini e sirene, immagini della Vergine e dei Santi.
Il colore e i
simboli impiegati per abbellire lo scafo richiamavano dunque a tradizioni
propiziatorie, sia che si facesse ricorso agli occhi, richiamandosi
all’antichità pagana, sia che ci si appoggiasse all’intervento dei Santi o
della Madonna rafforzando la barca con l’immagine che rimarcava la profonda devozione dell’equipaggio nei
loro confronti.
Lo stesso valore
simbolico si attribuiva anche ad altri segni ricorrenti, come la mano stretta a
pugno con il pollice tra l’indice e il medio ( detta “mano a fico” ), il corno e il ferro di cavallo, che rinviano
all’idea di vigore, di forza e di potere vitale.
L’opera morta era
decorata con lunghe fasce di colore intramezzate da ornati geometrici e
floreali regolari ma anche da cherubini, rappresentazioni simmetriche che
corrono lungo tutto il profilo dell’imbarcazione, realizzate con semplici linee
a zig-zag in rosso. Figure ricorrenti erano cavalli neri e bianchi galoppanti, leoni,
delfini, ed altre specie ittiche. Con la raggifurazione del delfino, ritenuto la
reincarnazione di pescatori annegati, si credeva potessero essere evitati i
danni che questo mammifero arrecava alle reti, affidandosi al principio di similia similibus – si curino i simili
con i simili – convinti che la barca in qualche modo venisse riconosciuta come
un loro simile. L’immagine di altri pesci invece si credeva potesse attirare le
varie specie ittiche assicurando una buona battuta di pesca. La barca risulta
dunque un prodotto finale concepito per mezzo di una grande abilità manuale
contraddistinta da una forte religiosità, che trova le sue radici
nell’antichità più remota, tradita da gesti identici perpetrati in millenni e
carichi di sentimento. Ciascun oggetto d’arte, al di là delle sue qualità,
racconta di chi lo ha creato, di chi lo ha voluto, dei modi in cui ci ha
raggiunti per divenire nostro contemporaneo, parla delle storie che
rappresenta, dei suoi spostamenti, delle vicende umane che in sua presenza si
sono consumate – e si consumeranno – lungo i decenni e i secoli.
L. R. Federica Valenti