Stocco o baccalà che sia, è d’obbligo sulle tavole dei siciliani, parola di Marcella Croce


Messina, mercato del pesce
Piazza Armerina ha sempre avuto una certa dimestichezza con il pesce, giacché i pescatori di Gela e di Licata vi venivano a vendere il loro prodotto, specialmente razze grandi e piccole (piccarelle), trattenendo per sé solo le frattaglie. Ma è un’eccezione: in Sicilia nella maggior parte dei paesi dell’interno l’unico tipo di pesce disponibile era il baccalà, merluzzo sotto sale importato dai lontani mari del nord, che si crede sia arrivato per la prima volta sull’isola insieme ai Normanni nell’XI secolo. Prezzo economico e facilità di trasporto e conservazione hanno contribuito per molto tempo a portarlo sulle tavole dei siciliani, soprattutto finché l’obbligo di non mangiare carne il venerdì è stato rigidamente osservato. Diverse sono in Sicilia le maniere di prepararlo, seppure non così varie come in Spagna e soprattutto in Portogallo dove è un vero piatto nazionale. Tra le più gustose e originali, ma anche più rare, le polpette di baccalà a base di patate che denunciano un’indubbia influenza iberica, fra le più comuni il baccalà fritto e il baccalà alla messinese o alla ghiotta (con pomodoro, olive e capperi). Il baccalà è accompagnato da polenta e bietole nel ripieno del pastizzo di Piazza Armerina, e sono ripieni di baccalà e patate i pastizzetti (o buccatedda) che nella provincia di Ragusa sono tipici della vigilia di Natale, una cena “di magro” per la quale in tutta l'isola il baccalà era considerato quasi obbligatorio.


Essicazione dello toccafisso
A Messina oltre al baccalà si è sempre mangiato lo stoccafisso, detto pescestocco (da fishstock) o semplicemente stocco, cioè il merluzzo secco importato dalla Norvegia, che può essere cucinato in mille modi (arrostito, in bianco con le patate e così via), mangiato crudo nell’insalata di stocco, o talvolta incluso fra gli ingredienti della caponata di melanzane. Messina rivaleggiò a lungo con Palermo per il titolo di capitale del regno specie nei secoli XV e XVI, ed è la città siciliana fisicamente più vicina al continente. Non a caso il grande pittore Antonello aveva rapporti con Napoli e Venezia dove risiedé anche a lungo e dove assorbì l’influenza dei fiamminghi. A Messina più velocemente che altrove, sono stati nei secoli importati tessuti, merletti, sete, oggetti, cibi, idee, e l’aristocrazia messinese ha sempre dimostrato una capacità imprenditoriale che non esisteva nel resto dell’isola. Solo Messina ha sviluppato preparazioni di pesce così elaborate e raffinate. Solo lì arrivò lo stoccafisso, anch’esso a quanto pare portato dai Normanni, e solo lì fu accolto con tanto entusiasmo. In piazza Zaera, dove una decina di anni fa è stato trasferito il mercato storico delle Due Vie, ogni merluzzo secco (lungo circa 80 cm) viene tenuto a mollo per circa una settimana, viene poi aperto in due, privato della spina centrale e tagliato in cinque pezzi: i due lunghi filetti laterali, le due meno pregiate surre e la ventre, termine che a Messina è femminile e denota un pezzo interno particolarmente apprezzato che si può cucinare arrotolato e ripieno come una braciola. Il ritrovamento del pesce stuocco delle suore benedettine e del baccalà alla basiliana fra le pietanze menzionate negli antichi menu ottocenteschi dei monasteri di Nicosia e di Troina, deve quindi essere interpretato come un chiaro segno dell'influenza messinese in queste aree interne dell'isola. 
Stocco alla messinese
Il pesce, che nei poemi omerici viene menzionato solo come disperata alternativa alla carne, era un piatto prelibato già per Archestrato di Gela, autore del poema Gastronomia quasi interamente dedicato ai pesci. Dal suo sapore, questa sorta di ispettore Michelin del IV secolo a.C., diceva di saper distinguere in quale stagione era stato pescato, e suggeriva di cucinare con formaggio e aceto il pesce di inferiore qualità, ma che solo olio e sale era sufficiente per il pesce migliore perché «contiene già in sé la ricompensa della gioia». È proverbiale la propensione dei siciliani per pesci, crostacei, molluschi e frutti di mare, che vengono generalmente cucinati in modo molto semplice e il cui sapore, se sono freschi, non deve essere oscurato da salse o intingoli di alcun altro tipo. I siciliani ne sanno potenziare il sapore con il semplice salmoriglio (cioè un pinzimonio di olio di oliva, succo di limone e origano), che è ritenuto più che sufficiente per il pesce arrosto. Al contrario gli anglosassoni in genere fanno di tutto per mascherare odore e sapore del pesce con salse complicate.
Stocco ammollato
Per quanto riguarda il tonno, Archestrato raccomandava come più saporite le carni della femmina, ed è forse da attribuire a questa antica credenza che femminile sia il tonno in siciliano (tunnina). In Sicilia molti tipi di pesce vengono fritti, o cucinati alla stemperata con aceto e menta, secondo una ricetta molto simile a quella riferita da Apicio nel suo De Re Coquinaria (I secolo d.C.). Viene generalmente ritenuto che le preparazioni di pesce che prevedono l'aceto derivino dalla cucina degli antichi romani che ne facevano largo uso e non conoscevano l'uso alimentare del limone. Numerosi pesci, spesso un misto di specie diverse, sono adatti alle preparazioni in “guazzetto” o alla gnotta (“brodetto”), antico termine messinese italianizzato in ghiotta. Sono in realtà zuppe abbastanza liquide che prevedono ingredienti quali pomodoro, olive e capperi, e che denunciano con varie denominazioni alternative (alla livornese, alla genovese, alla matalotta dal francese matelot) una provenienza esterna o marginale all’isola.
Terrina alla messinese
In ogni caso per i siciliani fish is beautiful, direbbe Charlie Brown, e sognare pesci in Sicilia porta fortuna. La lingua è sempre sicura fonte di informazioni sulla cultura di un popolo: è significativo che in italiano non esista un aggettivo che corrisponda a fishy, che in inglese ha connotazioni totalmente negative, e che si usa per descrivere qualcosa che “puzza come un pesce”. Proverbiale era l’abilità culinaria dei pescatori, che trattenevano per sé solo i pesci di minor conto, e vendevano tutto il resto. In arcaiche cucine di bordo o sul litorale, le preparazioni più frequenti erano la marinatura (che non presentava problemi di cottura), l’impanatura e il brodetto, entrambe adatte a mischiare più specie diverse nella stessa pietanza.
Stoccafisso alla trapanese
Da questa cucina, fantasiosa e rudimentale al tempo stesso, derivano molti piatti di pesce della cucina siciliana. Oltre alle zuppe, alle grigliate, ai risotti e ai condimenti per la pasta, in Sicilia si mangiano anche piatti freddi a base di pesce, per esempio l’insalata di mare, e le cipollate nelle quali il pesce (di solito tonno o sgombro) viene condito in agrodolce con aceto e grandi quantità di cipolle soffritte in olio di oliva. Le cipollate hanno forti somiglianze con il piatto arabo sikbaj (dal persiano sik, “aceto” e ba, “cibo”), sia etimo che ricetta si sono conservati nello spagnolo escabeche, nel napoletano scapece, nel siciliano antico schibbeci. A sua volta il sikbaj potrebbe derivare dall’askipeciam romano.
Sicuramente il Mediterraneo era un mare ricchissimo al tempo dei romani, come si può osservare in molti dei magnifici mosaici del Museo del Bardo a Tunisi e della Villa del Casale di Piazza Armerina, dove sono ritratti pescatori con reti ricolme di pesce, e gli artisti hanno raffigurato moltissime specie diverse con tale straordinaria accuratezza, che il professore Silvano Riggio dell’Università di Palermo ha usato fotografie di questi antichi capolavori come supporto visivo alle sue conferenze di biologia marina. Ancora praticamente immutata doveva essere la situazione nel 1872 quando Pietro Doderlein, fondatore dell’ittiologia mediterranea scrisse il suo trattato I pesci dei mari di Sicilia, in cui descrisse accuratamente una fauna di straordinaria abbondanza e varietà.

Guida ai sapori perduti –storia del cibo siciliano con 40 antiche ricette
di Marcella Croce