Garum, bottarga, lattume, mosciame, ficazza, del tonno non si butta nulla


Favignana, panoramica dal monte Santa Caterina
 A Favignana nel corso della recente manifestazione “La Settimana delleEgadi al tempo dell’Expo
molti gli argomenti trattati. Tra questi “Il Tonno nella cultura siciliana” con una relazione di Marcella Croce, giornalista e scrittrice, presidente del Centro Studi di Palermo Avventure nel mondo, che con il suo “Guida ai sapori perduti, storie e segreti del cibo siciliano con quaranta antiche ricette” ha sottolineato come per i siciliani ha importanza tutto quello che si ricava dal tonno, a partire dalla bottarga ricavata con le uova.
Un “collage” di lavorazioni del tonno
L’uovo di tonno viene messo sotto sale, pressato e lasciato a seccare nella vescica natatoria secondo un procedimento che risale al XIII secolo. Le uova diventano così un prodotto molto noto e apprezzato: la bottarga che, tagliata in fette sottili e condita con olio di oliva, è un antipasto, mentre grattugiata diventa un’ottima base di condimento per la pasta. La bottarga di Favignana oggi è un Presidio Slow Food; un tempo era prodotta negli enormi stabilimenti Florio, e oggi c’è una sola azienda artigiana che la produce seguendo la ricetta degli antichi maestri salatori. Nella preparazione si usa tuttora olio ottenuto in macine che girano a non più di nove minuti al minuto, cioè quanti ne impiegavano gli animali a far girare la ruota del frantoio. 

A partire dal V secolo a. C. la pesca del tonno praticata per la sussistenza delle popolazioni costiere, si è trasformata radicalmente con la pesca di migliaia di tonni trasferiti in impianti per la conservazione delle carni soprattutto sottosale.
Nelle campagne vicino Trapani i contadini più poveri compravano le branchie (tracchi) e le conservavano sotto sale. Strabone (III, 2-7) definì “maiale del mare” il tonno: ancora fino a tempi quasi recenti nulla infatti era buttato via, e venivano distinte 35 parti (“stalli”) in cui si tagliava la carne, ridotti negli anni ’70 a circa 25. Come si deduce da un dettagliatissimo elenco delle parti del tonno anticamente in commercio in Sardegna, tutto veniva mangiato o utilizzato in qualche modo, perfino le labbra, gli occhi, i calli sotto la coda. 
Nel 1800 e all’inizio del ’900 le tonnare erano ovunque, e la loro importana socio economica era rilevante.
Anche degli altri pesci erano sovente utilizzate le parti meno nobili per scopi non alimentari: a Terrasini c'è chi ricorda che del pesce balestra (o pesce porco) si utilizzava la pelle che, una volta essiccata, diventava così ruvida da poterci accendere i cerini. Il mosciame (filetto salato e secco), il lattume (lo sperma), la ficazza (salsiccia), il tarantello (carni vicino al costato), la carrubedda (salame), la buzzonaglia: sono alcuni dei numerosi prodotti del tonno in vendita a Trapani, tutte prelibatezze difficilmente reperibili nel resto dell’isola. Alcune industrie conserviere esistono anche a Milazzo e a Marzamemi, zone dove le tonnare erano tutte di ritorno
A sin. nella foto: l’elevata importanza commerciale delle tonnare è testimoniata dalle tante monete con tonni coniate tra il VI e il I secolo a. C.
Ci sono originalissime ricette che denunciano un proficuo incontro fra l’anima marinara della Sicilia e quella contadina: è il caso dei tagli meno pregiati del tonno che nella zona a sud di Siracusa vengono cucinati alla ghiotta con peperoni e lumache, e del tortino di vope (boghe) con nepitella, un piatto inventato dai pescatori di Ognina.
L’industria del pesce era molto sviluppata già in epoca antica, ed era oggetto di traffici commerciali in tutto il Mediterraneo una salsa chiamata garum ottenuta ponendo il pesce a macerare al sole in grandi vasche. Il garum era uno dei prodotti più apprezzati da greci, fenici e romani, che ebbero però sempre grande cura di costruire le vasche in un luogo dove i venti non avrebbero portato in città i cattivi odori che si sprigionavano durante la sua lavorazione. 
Una tonnara siciliana del 1800
Un procedimento sui cui risultati noi moderni tendiamo ad essere scettici, ma forse questo è un nostro limite, visto che nel mondo esiste tuttora qualcosa di simile, la salsa di pesce nuke-nam, apprezzatissima nel sud-est asiatico, che viene consigliata come sostituto del garum a chi volesse cimentarsi nel rifacimento delle antiche ricette. Il garum poteva essere consumato come condimento, o miscelato con vino, olio, aceto o acqua, e si distingueva il flos (“fiore”) dal liquamen, un termine che denotava una salamoia di minor pregio. La poltiglia residua, ancor meno pregiata, era chiamata allec.
Gli stabilimenti antichi per la lavorazione del pesce (taricheiai, cetariae) non solo preparavano il garum, ma soprattutto curavano la confezione del pesce salato. Nei pressi si trovavano quindi spesso le saline e anche le fornaci dove erano prodotte le anfore atte a contenere il prodotto finito. Il tonno (tàrichos) si distingueva per il grado di salatura, il modo di presentazione e l'utilizzazione, caratteristiche che spesso trovano tutte riscontro nelle suddivisioni ancor oggi note. Grandi stabilimenti di questo tipo sono visitabili nella zona archeologica di Barcino, la Barcellona romana che si trovava sotto l’odierna città, e in Catalogna ci sono perfino ristoranti che mettono il garum nel menu, cercando di riprodurre quei perduti antichi sapori. Altre grandi aree “industriali” di epoca romana esistevano in molti luoghi del Mediterraneo, e perfino lungo la costa atlantica portoghese e africana. In una decina di zone della Sicilia le vasche del garum sono state perfettamente individuate, per esempio sull’isolotto di Isola delle Femmine. In molti casi, per esempio a Vendicari e a San Vito Lo Capo, esse sono proprio adiacenti le vecchie tonnare, segno indubitabile che i prodotti ittici sono cambiati, ma la zona “industriale” è rimasta la stessa da almeno duemila anni. 
Levanzo, vasche lavorazione garum
È probabile che la passione dei siciliani per acciughe, e pesce salato in genere, abbia le sue origini nell’antica dimestichezza con il garum e con questi alimenti. Esisteva uno stabilimento romano anche a Cetara (dal latino cetaria, “vasca” e anche “tonnara”), sulla costiera Amalfitana, dove è ancora preparata artigianalmente la colatura di alici, il liquido ambrato che si ricava attraverso il processo di maturazione delle alici sotto sale, che è ritenuto il discendente diretto del garum. La leggenda vuole che, in tempi lontani, per caso, il barile in cui i pescatori conservavano le alici sotto sale, si forasse, e che da esso colasse questo liquido dal sapore veramente unico. I romani andavano anche famosi per i loro impianti di acquacultura: le piscine, luoghi di stabulazione per i pesci, diventarono un must per le case più importanti, e alcune famiglie si dedicarono totalmente all’allevamento di certi pesci assumendone il nome: Sergio Orata, Licinio Murena, e così via dicendo. Marcella Croce

Guida ai sapori perduti – storia del cibo sicilianocon 40 antiche ricette