Disastri ambientali: fermiamo le decisioni dissennate dei politici “petrolieri”


Piattaforma Horizon
La notizia è di questi giorni. La compagnia petrolifera BP è stata condannata dal Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, a pagare una multa di 4,5 miliardi di dollari, oltre alle decine di miliardi di dollari che sta già pagando come risarcimento dei danni provocati dal disastro della piattaforma petrolifera DeepwaterHorizon nel Golfo del Messico.
Ma dell’altro grande disastro ambientale di cui ricorre il decimo anniversario, quello provocato dall’affondamento della petroliera Prestige che sversò in mare 77mila tonnellate di greggio, non solo nessuno ha pagato, e soltanto oggi, si è aperto il processo alla ricerca di un colpevole.
Una storia che ha dell’incredibile così come ce la racconta Massimo Serafini in questo suo articolo. Massimo si è sempre occupato di ambiente sia come parlamentare (è stato deputato dal 1983 al 1992) che lo ha visto protagonista della discussione sulle scelte energetiche del Paese, sia come giornalista e scrittore attivamente impegnato in Legambiente.
Naturalmente è un grande amico della libreria Il Mare.

Volontari puliscono le coste della Galizia
 Il 19 di novembre di 10 anni fa, tutta la costa che va dal Portogallo alla Francia, passando per l’intera Galizia, si colorò di nero.
Prestige fu l’autore di quella lunga e tragica pennellata di asfalto, che si incollò alle rocce e alla sabbia, da secoli modellate dal mare e dal vento. Non è il nome di un pittore pazzo e malvagio, ma più semplicemente di una petroliera, una delle tante carrette del mare, con cui si alimenta di energia il nostro assurdo modo di vivere e consumare, quella crescita, da tempo ormai senza benessere, che i politici di ogni colore invocano in questi giorni di crisi. 
Massimo Serafini
 La marea nera distrusse in poche ore la straordinaria biodiversità del mare e della costa contro cui si infranse, ma anche le speranze di vita e reddito delle tante donne ed uomini che popolano quei territori. Mi chiedo, ingenuamente, come sia possibile che, passata l’emozione e rabbiosamente ripetuto per le strade il grido “mai più”, tutto sia ripreso come se nulla fosse accaduto e queste vere e proprie bombe naviganti son tornate a solcare i mari e gli oceani, addirittura lasciate circolare per la laguna di Venezia?
Forse una risposta a questo interrogativo la si trova indagando i 1300 tragici incidenti che sono stati causati, negli ultimi 50 anni, dall’estrazione o dal trasporto del greggio.
Certamente sono diversi fra loro, ma tutti presentano il medesimo contesto di omertà, prevaricazione, corruzione, disprezzo delle persone e dell’ambiente: un vero e proprio DNA del petrolio.
Se poi si volesse indagare e andare ancora più a fondo si scoprirebbe che queste tragedie raccontano anche la nostra dipendenza da questo combustibile fossile, quella spaventosa delega che ognuno di noi concede ogni giorno, a chi ha il monopolio del suo approvvigionamento e distribuzione, vestendosi, guidando un’auto, illuminando e scaldando la propria casa. 
Proprio mentre si stanno spegnendo gli echi sulla maxi multa inflitta alla BP per il disastro del golfo del Messico, dopo 10 anni di indagini e ricerca delle responsabilità si è aperto il processo per disastro colposo. Purtroppo sul banco degli imputati c’è solo l’ultimo granello della lunga catena di responsabilità: il capitano della nave, forse il meno colpevole.
Mancano i decisori politici, di destra e di sinistra, a cominciare dall’attuale presidente del governo spagnolo, il galiziano Mariano Rajoy che addirittura in parlamento negò che sulla costa della sua terra stavano per infrangersi oltre 70000 tonnellate di petrolio, fuoriuscite dalle stive del Prestige, spezzato in due dalla furia del mare e affondato. Mancano coloro che imposero il silenzio stampa sulla catastrofe e i direttori di giornali e televisioni che di fatto lo accettarono. Non sono sul banco degli imputati le compagnie petrolifere che per sete di profitto fanno viaggiare il loro petrolio su carrette del mare, affidate a equipaggi mal pagati e impreparati. E a dirla tutta manchiamo noi, a nostra volta colpevoli per la nostra incapacità di alimentare una alternativa rinnovabile al petrolio. 
 A che serve, mi chiedo, che migliaia di persone gridino “mai più” se poi, passate emozione ed indignazione, si lascia che l’indifferenza e la rassegnazione spengano quella promessa, lasciando i territori colpiti nella solitudine e nella disperazione. “Mai più” lo si ripete ormai tragedia dopo tragedia, ma fa francamente impressione la quantità di persone che interrogate sul Prestige non sanno cosa sia, né ricordano la scia di morte e distruzione che ha lasciato. Al contrario è in atto una vera e propria offensiva delle grandi multinazionali petrolifere per rilanciare la centralità di questo combustibile. Pochi giorni fa la IEA (International Energy Agency) nel suo rapporto World Energy Outlook (www.worldenergyoutlook.org) ci informava che i sostegni al petrolio sono tuttora 6 volte maggiori di quelli delle rinnovabili. 
Ma al di là del rapporto l’aggressività dei petrolieri dipende dall’avvicinarsi del momento della scarsità del greggio, di quel picco, nel quale l’offerta di petrolio non sarà più in grado di coprire una domanda che in pochi anni ha visto irrompere sulla scena oltre un miliardo di nuovi consumatori. È questo il motivo di fondo che ha spinto tutte le grandi compagnie petrolifere ad una vera e propria guerra per cercare di accaparrarsi le ultime riserve disponibili. Sempre il rapporto della IEA ci dice che lo si cerca ovunque e a qualsiasi prezzo: negli Usa si vuole perforare l’Alaska per fare diventare gli Usa il primo produttore del mondo; i cinesi comprano gran parte dell’Africa ricca di petrolio, facendo scempio di quelle terre e popolazioni; lo si cerca dove non c’è come in Italia e addirittura alle isole Canarie, dove si pensa di trovarlo nell’oceano atlantico a 3000 metri di profondità.
 Nessuno dei decisori politici importanti sembra avvertire che questo tentativo di rilanciare la centralità dell’oro nero porta con sé la quasi certezza di esporre il mondo a guerre e a un incontrollabile cambio climatico che la combustione del petrolio alimenta e che potrebbe rendere invivibile il pianeta.
La conferma che il mondo è ormai nelle mani di una classe dirigente irresponsabile lo conferma la decisione del governo spagnolo di perforare, per scovare petrolio, l’oceano Atlantico che circonda le isole Canarie. Solo, infatti, una mente in confusione o all’opposto incline a sottomettersi ai potenti, può partorire l’idea bislacca di cercare e, una volta trovato, estrarre petrolio in uno dei principali serbatoi al mondo di biodiversità e nel più grande giacimento di risorse solari ed eoliche del pianeta nonché una delle principali mete turistiche del mondo.
 Nei giorni scorsi mi sono imbattuto in alcune guide turistiche che così raccontano le isole:
“L’oceano vide nascere dalle sue viscere, venti milioni di anni fa, sette isole e sei isolotti avvolti da mistero e leggenda. Un pezzo di Europa nel centro dell’Atlantico, sulla strada per l’America. Sono conosciute come isole tranquille, un luminoso luogo di sogno, uno scenario paradisiaco dove è quasi impossibile conservare la nozione del tempo”.
Non c’è, a ben vedere, grande differenza con il commento di un’altra guida, pubblicata nel 1888 e destinata ai malati con problemi polmonari, che potevano trovare nelle isole sollievo: “vicino alla costa africana, a circa sessanta ore di navigazione da Cadiz e a solo quattro giorni e mezzo da Plymouth, esistono sette isole bagnate dall’Oceano Atlantico e baciate dalla provvidenza fin dal tempo in cui gli antichi poeti individuarono qui i Campi Elisi, mentre altri chiamano queste isole Le Fortunate” .
 Certo tra i frammenti di testo passano più di un secolo e molti milioni di turisti e che la realtà è diversa dal messaggio promozionale. Verso la fine degli anni sessanta fu deciso infatti di basare l’intera economia delle sette isole sull’industria turistica, convertendole in una destinazione preferita di grandi masse di villeggianti. Eppure questi sette scogli alla deriva nell’oceano mantengono in gran parte paesaggi intatti, salvati miracolosamente dalla distruzione della modernità. Quello che trasmettono non è che il turista viene alle Canarie, ma che ritorna per abbandonare quella civilizzazione che ha aperto una distanza enorme tra lui e il mondo, ritorna per reintegrarsi in una natura ancora in gran parte incontaminata.
È questo fragile equilibrio che si vuole fare saltare con il petrolio. Indicibili fabbricatori di menzogne e pennivendoli comprati ripropongono ad un popolo che evidentemente pensano raggirabile e a sua volta comprabile lo spartito di sempre… i posti di lavoro che arriveranno…, la sicurezza della tecnologia…, la benzina magicamente poco costosa.
Ma fino ad ora non sembra che le popolazioni accettino lo scambio, né si bevano le promesse di ricchezza e posti di lavoro.
Questa resistenza però per affermarsi ha bisogno di estendersi, di contaminare tutti i luoghi dove è in atto il tentativo di rilancio del petrolio. E forse neppure se si riuscirà a costruire un no generalizzato potrebbe essere sufficiente per fermarlo. Lo si fermerà solo se si saprà dimostrare che il petrolio non serve. C’è un solo modo convincente di dimostrarlo: costruire un nuovo modello energetico in grado di garantire lavoro e una elevata qualità della vita avendo bisogno di poca energia e soprattutto che il 100% di quella necessaria venga fornita dal sole, dal vento, dalle biomasse e dalle maree.
Le fotografie mostrano azioni di protesta nelle isole Canarie e alcuni paesaggi delle isole Le Fortunate.

Massimo Serafini