Si misura la cattura prima del rilascio |
In un’epoca dove tutto cambia a
velocità impensabile, occorre adattarsi ad una nuova realtà del mare e della
pesca sportiva e ricreativa. Cresce così l’importanza del catch&release, ma
se oltre Atlantico questa pratica è quasi normale, da noi resta ancora un’eccezione,
per altro non sempre ben praticata.
di
Stefano Navarrini, direttore del mensile Pesca in Mare
Che la pesca sportiva e ricreativa
sia in costante e decisa evoluzione non
è certo cosa nuova, e che a questa evoluzione non corrisponda un adeguamento
culturale e responsabile dei pescatori è cosa, ahimè, altrettanto nota. Non
staremo qui a rifare il consueto e antico tormentone sul confronto fra preda e
predatore, sui valori del catch&release (d’ora in avanti C&R) nel restituire
la libertà al nostro avversario dopo aver goduto delle emozioni che ci ha
regalato, e via dicendo anche perché abbiamo seri dubbi sull’efficacia
mediatica di certo esagerato buonismo. D’altro canto evitiamo di cadere nella
trappola dell’altrui presunto senso di responsabilità ambientale, perché va
detto che se per noi il C&R è una forma di approccio etico alla pesca, per
altri si tratta solo di un sistema da imporre per proteggere risorse a proprio
esclusivo vantaggio, nel senso che quando si chiede ai pescatori sportivi e
ricreativi di rilasciare le proprie prede, è solo per consentire che le stesse
vengano poi pescate dai professionisti con altri metodi. A nostro parere, il catch&release è “…una sorta di filosofia di pesca responsabile
indotta da un sempre più necessario rispetto dell’ambiente, ed è mirato ad una
maggior protezione della risorsa ittica. Chiaro però che il catch&release
non deve trasformarsi in un buonismo deformante che snaturi il senso stesso
della pesca. La sua applicazione non deve essere sottoposta a nessun obbligo morale
né meno che mai normativo, se non per il rispetto della legge sulle taglie
minime e sulla quantità di pescato giornaliero. Deve in pratica restare una
libera scelta del pescatore e del suo approccio culturale ad un’attività che
non potrebbe esistere se non esistesse la sua materia prima, cioè i pesci. Non
a caso negli Stati Uniti, dove il catch&release è nato ed è ampiamente
praticato, hanno coniato un tormentone che racchiude perfettamente il senso
della questione, là dove gli americani dicono che un pesce è un bene troppo
prezioso per essere pescato una sola volta. Discorso che vale soprattutto
quando l’esemplare è di piccole dimensioni, e può magari essere ripescato
qualche chilo più in là, magari dopo essersi riprodotto”. Il virgolettato, per
inciso, cita il pensiero di Pesca in Mare espresso nell’apertura di un convegno
sul C&R organizzato dalla nostra rivista in occasione del Salone Nautico di
Genova di due anni fa.
Se torniamo sull’argomento è però per alcuni motivi di importanza tutt’altro che trascurabile: da una parte perché il C&R potrebbe essere in un prossimo futuro l’unico sistema di pesca ricreativa per alcune specie, ed in particolare per il tonno rosso, dall’altra perché da segnalazioni ed esperienze varie ci siamo resi conto che la conoscenza delle tecniche di rilascio è ancora molto vaga, e infine per stimolare una ricerca che esamini scientificamente i vari aspetti del C&R.
Rilascio da surfcasting |
Cominciamo
dal primo argomento, quest’anno quanto mai attuale perché se da un lato, come
del resto era prevedibile, la pesca ricreativa al tonno rosso è stata bloccata
all’inizio di agosto per esaurimento della quota concessa, dall’altro un
successivo decreto ha ufficializzato (cosa che a dire il vero appariva in ogni
caso lecita) la possibilità di pescare il tonno rosso senza limiti stagionali,
purché ogni esemplare allamato venisse poi inequivocabilmente e regolarmente (ovvero
in mare e non in pozzetto) rilasciato. Sulla normativa che regola la pesca
ricreativa, escludendo il rilascio, abbiamo già più volte espresso le nostre
perplessità, ma senza tornare sull’argomento e soprattutto alla luce della
quantità di tonni avvistati, pescati e rilasciati nei mesi scorsi (oltre le
tutt’altro che trascurabili quantità pescate illegalmente), qualche domanda
sorge spontanea. La salvaguardia di una specie minacciata dall’overfishing
nasce, si presume, da approfondite valutazioni scientifiche (anche se nel caso
del tonno rosso subentrano forti ingerenze commerciali e politiche), ma chi e
come sviluppa queste ricerche? Con quali sistemi si valuta la salute dello
stock, o per dirla in soldoni, come si contano i tonni, pesci in costante
movimento per altro su rotte e batimetriche quanto mai varie? Possono le
ricerche dell’ICCAT o quelle dei singoli Stati membri piuttosto che l’indice di
cattura della pesca professionale essere l’unico metro di valutazione? Fidarsi
della scienza è doveroso, ma saperne di più ci farebbe stare più tranquilli, e di
questo argomento torneremo a parlare in un prossimo futuro.
Una scelta etica
Un’altra
osservazione potrebbe riguardare la proprietà dei pesci, che potrebbero essere
considerati come res nullius, quindi disponibili per chiunque, o anche
proprietà comune di tutti i cittadini del paese nelle cui acque territoriali i
pesci vengono pescati. In questo secondo caso, però, per quanto riguarda il
tonno rosso, la forte sproporzione nella suddivisione delle quote fra pesca
professionale e pesca ricreativa, non appare giustificata. Soprattutto
considerando la valenza numerica, sociale ed economica di quest’ultima.
Ricordiamo in ogni caso che l’ICCAT assegna una quota allo Stato membro, ma è
poi questo a suddividerla fra le varie categorie. Più
che un obbligo, quindi (tonno rosso o specie sotto tutela a parte), a nostro
parere il C&R dovrebbe essere una scelta etica del singolo pescatore, anche
perché apparentemente non esiste alcuna sostanziale differenza fra mettere in tavola un
pesce comprato in pescheria e un altro prelevato direttamente in mare. Nel
secondo caso, però, emozioni a parte, si mette in moto un indotto economico ad
ampio respiro di cui spesso non si tiene conto, come per altro sostenuto da una
nota ricerca a livello europeo che aveva dimostrato come un pesce pescato amatorialmente
avesse un valore economico nettamente superiore allo stesso pesce pescato
professionalmente.
Rilascio di un bonefish |
Quanto alla pesca professionale, di cui abbiamo il massimo
rispetto, siamo certi che il nostro minimo impatto sulla risorsa, soprattutto
grazie al diffondersi del C&R e nel rispetto delle leggi vigenti, non crei
alcun sensibile danno. Questo,
ovviamente, se il C&R viene praticato in modo adeguato, e allora è
importante anche ricordare che un buon rilascio sarà tanto più efficace se
preceduto da adeguate accortezze. Queste riguardano sia la tecnica di combattimento
che le attrezzature, e sono di primaria importanza per assicurare che il pesce
rilasciato sia nelle migliori condizioni e nel pieno delle sue forze. Tenendo
presente che non basta rilevare con soddisfazione che il pesce rilasciato
riprenda il largo con apparente sicurezza, perché sarà altrettanto importante
che una volta tornato nel suo ambiente sia in grado di difendersi con
efficienza dai suoi abituali predatori e di preservare il suo stato di salute. Tornando
alle attrezzature, una delle regole principali è quella di usare libbraggi
sufficientemente pesanti per facilitare un combattimento rapido che non stressi
più di tanto la nostra preda.
Questo va un po’ contro la presunta abilità del
pescatore, e in qualche modo è l’antitesi della ricerca di un record, ma si
tratta di una scelta precisa e non sovrapponibile: oggi pesco per il mio
piacere, domani tento di stabilire un record. Altrettanto importante ai fini di
un buon rilascio è l’utilizzo di ami circle non offset, con i quali l’allamata
avviene per la maggior parte dei casi ai lati della bocca, cosa che facilita la
rimozione dell’amo o che, anche in caso ci si limitasse a tagliare il filo lasciando
l’amo in sede, non comporterebbe particolari fastidi per l’animale. In
quest’ultimo caso meglio se l’amo utilizzato non sarà inox, e potrà quindi
rapidamente degradarsi senza lasciare tracce, e meglio ancora se, per
facilitarne la rimozione, avrà
l’ardiglione schiacciato o ne sarà addirittura privo, cosa che non inciderà più
di tanto su eventuali slamature.
Per un buon rilascio…
Anche
l’abilità del pescatore nel condurre il combattimento ha la sua importanza ai
fini del rilascio. Un combattimento lungo e sfiancante, stresserà oltre misura
il pesce portandolo sottobordo con un tal carico di acido lattico da renderne
problematico il rilascio. Inoltre durante le fasi di slamatura sarà importante
mantenere il più possibile il pesce in acqua, e là dove fosse necessario
portarlo a bordo andrà maneggiato unicamente con le mani bagnate (e/o protette
da guanti in plastica), cosa che eviterà da un lato di asportare il prezioso
muco che ricopre la pelle del pesce proteggendolo da infezioni batteriche, e
dall’altra gli eviterà lo shock termico conseguente al contatto con le nostre
mani, ben più calde rispetto alla temperatura del mare. Infine va ricordato che
il pesce si è sviluppato e vive in ambiente in cui la densità dell’acqua offre
un consistente sostegno globale, ma che una volta portato in ambiente aereo
l’animale subisce tutto il peso della forza di gravità.
Da qui l’accortezza di
non tenere mai i pesci, soprattutto quelli di maggiori dimensioni, in posizione
verticale per evitare danni agli organi interni, e meno che mai portarli a
bordo sollevandoli con un boca-grip. Importante è poi maneggiarli con delicatezza
tenendoli in posizione orizzontale, e rimetterli in acqua con altrettanta
delicatezza e con la testa in avanti. Queste, per capirci, sono le
raccomandazioni di chi il C&R l’ha inventato, oltre Atlantico, ed essendo
pienamente supportate dalla scienza sarà il caso di fidarsi. Anche se, come
spesso capita di vedere, certi pesci rilasciati dopo un trattamento brutale,
magari maneggiandoli come pupazzi e buttandoli fuoribordo come fossero pastura,
si dimostrano vitali nel riguadagnare il blu: nessuno sa cosa accadrà dopo
qualche ora.
I danni della pressione
La
sopravvivenza di un pesce fuori dall’acqua può variare da specie a specie, ma
dipende anche dalle caratteristiche del recupero, e in ogni caso parliamo
sempre di pochi minuti. Inoltre la vitalità di un pesce strapazzato in pozzetto
e magari poi rigettato in acqua, non deve trarre in inganno, perché eventuali
danni fisiologici possono subentrare successivamente.
Dentice con visibile barotrauma |
Al proposito sarà bene
ricordare che un pesce che abbia ingoiato l’esca, e che quindi abbia l’amo
conficcato nell’esofago o nello stomaco, non può essere slamato pena gravi
danni organici. In questo caso sarà sempre meglio tagliare la lenza il più
vicino possibile all’amo, e sicuramente meglio se con il pesce ancora in acqua. Un’attenzione
particolare andrà poi dedicata a quei pesci catturati oltre una certa
profondità, che a causa di un recupero troppo veloce arrivino in superficie con
un visibile barotrauma: in pratica con lo stomaco estroflesso a causa del
rigonfiamento della vescica natatoria che non è riuscita ad adattarsi allo
sbalzo di pressione. In questi casi occorrerà procedere con un apposito
attrezzo (quello che gli americani chiamano venting-tool) per bucare con
delicatezza la vescica natatoria e provocarne lo sgonfiamento. In mancanza di
un attrezzo apposito, si potrà utilizzare un ago ipodermico inserendolo sottopelle
con un’angolazione di 45° e non troppo in profondità, al di sotto della pinna
pettorale.
Un semplice ago per bucare la vescica natatoria |
Come verificato in diverse ricerche scientifiche, il danno di una
vescica natatoria forata guarisce in tre-quattro giorni restituendo al pesce la
sua completa funzionalità in meno di due settimane.
Non
sappiamo se il C&R rappresenterà realmente, e in che misura, il futuro
della pesca ricreativa. Di certo è una filosofia di pesca decisamente
sostenibile a livello ambientale e culturale, essendo il nostro mondo ancora troppo legato a quegli
aspetti predatori della pesca che, per quanto istintuali e comprensibili,
devono necessariamente rientrare nell’ottica di un mare che purtroppo negli
ultimi decenni ha cambiato completamente faccia.
Oltre Atlantico. L’IGFA
(International Fishing Game Association) è la maggior associazione di pesca
sportiva e ricreativa al mondo, da sempre forte sostenitrice del C&R. Con
il suo presidente, Rob Kramer, abbiamo voluto approfondire l’argomento.
D. Il reale significato del termine “pesca” implica inevitabilmente la
cattura della preda, ed essendo questo uno dei nostri più primordiali istinti è
ciò che spinge verso la pesca la maggior parte degli appassionati. Oggi con
l’avvento del catch&release lo stile dei pescatori ricreativi sta
cambiando, ma cos’è veramente cambiato e cosa deve necessariamente cambiare?
R. E’ vero che il significato tradizionale di pescare in molte culture
equivale a “catturare”, ma girando per il mondo incontro sempre più pescatori
che trovano la loro maggior soddisfazione nello strike come nel combattimento,
o semplicemente nello stare in mare a contatto diretto con la natura. In effetti
il più profondo significato della pesca ricreativa, nata diversi secoli fa, si
basava più sulle sensazioni di relax e di tranquillità che sulla più pragmatica
cattura e consumo della preda.
D. Fra le più note attività dell’IGFA c’è quella di essere l’unico
organismo di riferimento a livello mondiale per l’omologazione e la
classificazione dei record di pesca. Come si coniuga questo aspetto con il
forte sostegno dell’IGFA per il C&R?
R. Ogni anno l’IGFA riceve circa 700-800 richieste di omologazione di
record. Il 50% di questi pesci viene rilasciato (i pesci possono essere pesati
e rilasciati purché la richiesta di omologazione del record sia supportata da
un’adeguata documentazione fotografica). Inoltre l’IGFA spende ogni anno circa
un milione di dollari promuovendo pratiche di conservazione delle risorse, fra
cui anche il C&R. Se l’IGFA non omologasse più i record di pesca, a farlo
ci penserebbe di certo un’altra associazione, probabilmente senza dedicare alla
protezione delle risorse quello che dedichiamo noi. Possiamo aggiungere che un
pesce da record è indubbiamente un pesce di grandi dimensioni, difficile da
superare, ma se la cosa fosse gestita da un’altra organizzazione questa
potrebbe azzerare i record esistenti, magari modificare le regole, e questo
risulterebbe di sicuro in una quantità di pesci catturati e persi inutilmente.
D. I record si basano sull’abilità di catturare un pesce con una lenza
il più leggera possibile, ma questo è esattamente quello che uno non dovrebbe
fare ai fini di un corretto rilascio: cosa pensi di questo apparente contrasto?
R. Non tutti i record si basano sulla cattura di un grande pesce con
una lenza leggera. La dimensione media delle catture presentate per l’ omologazione di un record è oggi meno
di 13kg, inoltre non sempre una lenza leggera equivale ad un lungo e stressante
combattimento, anzi spesso se il pescatore è in gamba accade il contrario.
Direi che in generale è bene utilizzare un’attrezzatura sufficientemente
pesante per combattere un pesce con la certezza di portarlo sottobordo nelle
condizioni giuste per poter poi essere rilasciato. L’importante è in ogni caso la
durata del combattimento, ma questo dipende soprattutto dall’abilità del
pescatore.
D. Molti pescatori si chiedono quante sono per un pesce le probabilità
di sopravvivere ad un rilascio: è mai stata fatta una ricerca in questo senso?
R. Sono stati fatti molti studi in merito, ma i risultati variano
sensibilmente a seconda della specie, dei tempi del combattimento, delle
caratteristiche del rilascio. La maggior parte degli studi, tuttavia,
concordano nel sostenere che usando le giuste tecniche la sopravvivenza è di
oltre il 90%.
D. Ci sono pesci più difficili da rilasciare, ed altri magari
impossibili?
R. Anche questo dipende dalla specie e dalle tecniche usate per la
cattura, ma in genere qualunque pesce può essere rilasciato con successo. Una
certa attenzione va però dedicata a quei pesci allamati a forte profondità, a
causa del barotrauma che potrebbero subire arrivando in superficie, e a quelli
che abbiano ingoiato l’esca. L’uso di appropriate attrezzature, a partire dalla
scelta dell’amo a seguire con un adeguato slamatore, e un attrezzo per
sgonfiare un eventuale vescica traumatizzata, possono aumentare sensibilmente
la sopravvivenza del pesce una volta rilasciato.
D. E’ vero che nel Golfo del Messico è obbligatorio avere a bordo
attrezzi che facilitano il rilascio?
R. Assolutamente si. Per la pesca sottocosta sul reef i regolamenti
federali richiedono l’uso obbligatorio di ami circle non inox, di accessori per
lo sgonfiamento della vescica natatoria (venting tools n.d.r.), e di
appropriati slamatori.
D. Quali sono secondo te le principali regole da seguire per un buon
rilascio?
R. La più importante è quella di essere già preparati al rilascio, e di
usare attrezzature adeguate, come ad esempio ami circle, o ami “J” con
l’ardiglione schiacciato. L’IGFA raccomanda
di evitare le ancorette, e di usare guadini con la rete “gommizzata”, in
modo da minimizzare la quantità di muco asportata dalla pelle del pesce durante
il recupero.