“Abbiamo tolto, precisa, delle gran secchiate d’acqua che inzuppava, impregnava le centinaia di pezzi recuperati, circa settecento, lunghi da 40 centimetri a qualche metro.
Nella foto sopra: I resti della nave coperti dal deposito di matta di posidonia
Sono i legni che formano le tessere di un mosaico che tra un anno saremo in grado di ricostruire. È stato un gran lavoro, perché siamo partiti da percentuali di acqua intorno al 650% per arrivare ai contenuti normali del legno che sono del 20, 25% ”.
![]() |
Il trasporto in superficie |
![]() |
Il sistema con binario per i recuperi |

mentre non lo erano molte ordinate e il fasciame esterno aggrediti dalla teredine (Teredo navalis).
A sn. Il bordo occidentale dello scafo conservato con le ordinate ed il fasciame interno
Così, a dieci anni dal ritrovamento, la Soprintendenza del Mare siciliana, grazie al costante e tenace impegno del suo direttore Sebastiano Tusa, con il finanziamento di oltre 800 mila euro arrivato dai cosiddetti fondi del gioco del Lotto, nel 2009 ha iniziato una campagna sistematica di scavo durata tre anni con il lavoro interdisciplinare di archeologi, subacquei, ingegneri, restauratori e storici.
Il primo intervento di scavo chiarì l’esatta consistenza del relitto, delle sue caratteristiche e dello stato di conservazione, nonché alla raccolta degli elementi utili alla redazione del progetto di scavo, recupero e conservazione dell’intero relitto.
![]() |
Il doppio paramezzale sulla chiglia |
Quel tipo di nave da trasporto era costruita con una tecnica a guscio portante, esattamente al rovescio di quella attuale, prima si montava la chiglia, poi l’esterno, quindi l’ossatura.
Questa è una parte della descrizione dello scafo scritta nella scheda tecnica elaborata da Sebastiano Tusa.“Il fasciame esterno era montato a paro con assemblaggio a mortase e tenoni. Lo scafo presenta un’alternanza di madieri e staminali fissati al fasciame esterno con chiodi di rame e ferro a sezione quadrata. Fori di diametro maggiore alloggiavano gli spinotti lignei che tenevano unito fasciame ed ordinate.Il fasciame superiore (interno), costituente un vero e proprio pagliolato praticabile che copriva la sentina, era stato costruito accuratamente alternando tavole di larghezze diverse (rispettivamente cm 18-22 e 13-15), più sottili rispetto a quelle del fasciame esterno. Il loro posizionamento era alternato a sbalzo determinando gradini simmetrici di circa cm 2 tra una tavola e l’altra. Le 22 ordinate sono presenti con un intervallo variabile così come diversa è la loro forma. Una risulta composta da due elementi appoggiati quasi ad incastro.

A sn Le traversine a chiusura dello spazio tra i due paramezzali sulla chiglia
Si tratta della chiglia dove al di sopra dell’attacco delle ordinate non vi è, come solitamente avveniva, il paramezzale, bensì due elementi paralleli leggermente laterali (altrove definiti “paramezzalini”) che lasciano uno spazio vuoto intermedio di ca cm 17 talvolta coperto da traversine Si tratta, evidentemente, di un elemento di rafforzamento della chiglia che permetteva anche di avere uno spazio vuoto all’interno dove, ad esempio, poteva trovare alloggiamento la testa della pompa di sentina, ma anche la scassa dell’albero e gli alloggiamenti per il sostegno dei bagli. Le teste dei madieri s’incastravano al di sotto dei due paramezzalini paralleli. Le analisi xilografiche tuttora in corso hanno dimostrato finora che il fasciame interno (pagliolato) sarebbe stato costruito con legno di abete (Abies sp.) e le ordinate con legno di frassino (Fraxinus sp.).”
![]() |
Primi interventi subiito dopo il recupero |
![]() |
Rosetta impressa sul collo di un anfora tipo Keay 25 |
![]() |
Anfora africana |
La Sicilia ha un notevole patrimonio culturale subacqueo, tante sono le sue “stelle”, come si vede in questa illustrazione, tutte catalogate e descritte in un database, il Sistema Informativo Territoriale (S.I.T.) creato dalla Soprintendenza del Mare a partire dal 2004. Oltre che banca dati è anche un utilissimo strumento di programmazione.
Il sistema è una forma rivisitata della pubblicazione del 1958 Forma Maris Antiqui realizzata grazie alle intuizioni e al lavoro dell’archeologo Nino Lamboglia, il primo in Italia a scavare nel 1950 un relitto, la nave romana di Albenga, e subito dopo a creare il Centro Sperimentale di Archeologia Subacquea.
In quegli anni non esistevano ancora archeologi subacquei e l’archeologia ufficiale iniziava a interessarsi del problema dei rinvenimenti in mare. Non si era a conoscenza dell’enorme quantità di presenze sommerse che dovevano essere scavate, studiate, restaurate e musealizzate o in alternativa, se lasciate sul fondo del mare, tutelate.
![]() |
Segno di Tanit su anfora africana |
“Come prima cosa i legni, per liberarli completamente dai sali e dai minerali che si sono accumulati nel corso di quasi due millenni di permanenza sott’acqua, sono stati sottoposti a desalinizzazione e demineralizzazione. La tecnica che usiamo è quella di immergerli, con ripetuti cambi, in acqua deionizzata (acqua pura senza tracce di sali) sostanzialmente acqua demineralizzata, fino a che con test di conducibilità non si ha la prova che non siano più presenti sali. Questa è la parte più semplice, anche se ci sono voluti tre mesi per liberare completamente dai sali minerali i legni più grandi. Contemporaneamente si caratterizza il tipo di legno e il suo degrado: ogni singolo pezzo di legno viene schedato, catalogato e a ciascuno viene assegnato un protocollo per la successiva lavorazione che consiste nell’impregnazione con una soluzione di carboidrati complessi, sostanzialmente sono delle molecole che si usano nell’industria alimentare e che sono molto affini a quelle che il legno ha perso.

A sn. Una delle camere per l’essicazione a vuoto discontinuo
Quindi hanno un degrado che noi titoliamo in riferimento a un parametro che definiamo massimo contenuto d’acqua, ovvero la definizione di umidità contenuta nel legno in opera, cioè il rapporto tra il peso del legno e l’acqua che contiene. Per capirci nel legno dei mobili delle nostre case il rapporto è del 12/14% e l’umidità naturale dei nostri ambienti è intorno al 65%. Nei legni appena recuperati il rapporto, che non definiamo più umidità, sarebbe un eufemismo, rappresentava il massimo del degrado; quelli meglio conservati avevano un contenuto d’acqua del 400% fino ad arrivare al 700%.
Quindi sono le stesse molecole dell’acqua, si può dire, che in questi casi sorreggono la struttura legnosa. Il problema allora è togliere tutta questa acqua senza far collassare il legno, che se la togliessimo in un modo improprio provocheremmo la sua distruzione.
![]() |
Caratterizzazione di un campione di legno |
![]() |
Carrello con legni pronti per l’essiccazione |
Il rapporto esprime il fatto, per esempio, che se si trattasse di una bottiglia di plastica piena di acqua, una sua veloce fuoriuscita creerebbe una depressione all’interno tale da far collassare le pareti. Nello stesso modo se provocassimo il collasso delle molecole del legno avremmo sicuramente una riduzione volumetrica anche di dieci volte, tale che un legno dello spessore di 4 cm si ridurrebbe a un solo centimetro, un collasso devastante!
Ecco perché utilizziamo un protocollo di impregnazione con queste farine di riso. Per dirla in maniera comunicativa senza addentrarci troppo nella chimica, si tratta di molecole che sono una via di mezzo tra gli amidi (troppo grandi) e gli zuccheri (che appesantiscono) che si reticolano all’interno del legno senza giungere a completa saturazione, come succede con il PEG, il glicole polietilenico l’altro sistema tradizionalmente usato per consolidare i legni. Il nostro protocollo d’impregnazione tiene conto anche del diverso grado di ammaloramento all’interno del legno stesso che può essere stato attaccato da parassiti, teredini o molluschi.
A ds. Marco Fioravanti e Marco Togni, del DEISTAF dell'università di Firenze mentre caratterizzano i legni presso il laboratorio. Rappresenta il momento della certificazione del trattamento.
Perché si è conservato? Pur essendo rimasto in acqua per così tanto tempo nel momento in cui si è ricoperto di sabbia, terra, argilla e altri materiali si è creato un ambiente senza ossigeno che non ha dato sviluppo a cariche batteriche e altri agenti patogeni che l’avrebbero degradato. In quasi due millenni, si è avuto un lentissimo degrado dovuto semplicemente alla solubilizzazione dei sali minerali. Esattamente come è successo con il relitto del Vasa, ma ancor meno perché è stato in acqua appena 333 anni. Quello del Vasa è l’intervento di restauro che ha dettato la storia di questi tipi di recuperi, ha permesso di approfondire le tecniche e di trovare nuove strade come i nostri attuali trattamenti.
Il Vasa, affondato nel 1628, ha avuto tre tipi di fortuna, era in rovere notoriamente un legno durissimo, è affondato il giorno stesso del varo quindi il legno era nuovo, non degradato perché appena tagliato dai maestri d’ascia, infine è affondato nel mar Baltico, freddo e scuro notoriamente un ambiente ostile per le teredini.
A sn. questa immagine rende conto della perfetta collimazione degli elementi assemblati
Per quanto mi riguarda, l’avrei semplicemente essiccato senza sottoporlo per 17 anni alla pioggia di PEG. Ora i restauratori svedesi hanno problematiche dovute alla reazione del PEG con gli elementi ferrosi come i perni che caratterizzano la struttura espositiva e li stanno sostituendo con elementi in fibra di carbonio e acciaio. Prima di arrivare ai nostri risultati che il mondo scientifico ci riconosce come validi, abbiamo studiato non solo il caso del Vasa o del Mary Rose, con i suoi 91 cannoni era l’orgoglio della flotta inglese, colò a picco nel 1545, ma di tutti gli altri relitti recuperati in giro per il mondo. Ci siamo fatti delle domande, e abbiamo affrontato la problematica della conservazione del legno con la mentalità del chimico o del fisico.
![]() |
Vasca per l'impreganzione |
Bisogna sempre ricordare che partiamo da contenuti d’acqua del 650% e finiamo il trattamento intorno ai 20/25%.
![]() |
Vasca pronta con carboidrati complessi a catena modificata |
![]() |
Rendering e progetto di musealizzazione |
![]() |
Giovanni Gallo |
Gallo ha 53 anni. è salernitano doc, ha iniziato a occuparsi di restauro nel 1980, la sua è la formazione di un restauratore che si è prestato allo studio sistematico delle problematiche della materie organiche del legno. Non esiste un titolo universitario che comporti una specializzazione in questa materia. La sua è una laurea che non esiste, ma è conquistata sul campo, un dottorato di ricerca unico. «Legni e segni della memoria» è l’unica società che usa questo metodo e ha ottengo negli ultimi 30 anni grandi risultati. A partire dal 2006 il loro è un progetto d’eccellenza riconosciuto dal ministero della ricerca. Si sono così ricavati una fetta di mercato in una Italia che non apprezza e riconosce queste cose.
La società, che si rifà agli studi e alle esperienze di Gallo, si occupa di restauro a 360 gradi con una specializzazione nel restauro monumentale del corpo di fabbrica antico. Tutte le strumentazioni e gli apparecchi utilizzati sono autocostruiti, messi a punto nel corso degli anni.
Maurizio Bizziccari
Per le fotografie: Soprintendenza del Mare Sicilia e Legni e Segni della Memoria