Andar per Isole nel mare Egeo: Serifos, del Meltemi e degli incontri

 
Andar per Isole.
Diario, riflessioni, indicazioni utili e consigli di Roberto Soldatini
Un navigatore solitario in Egeo

III parte: Serifos, del Meltemi e degli incontri

Oggi poco vento, domani è prevista calma piatta e dopodomani il ritorno del Meletemi. Vedremo. Da Paros a Serifos con poco vento di bolina, quindici nodi appena, ma con entrambe le vele aperte Denecia viaggia a sette nodi fino in porto. 
Nella foto: Indimenticabili ore passate al caffè Stou Stratou, nella piazzetta della chora di Serifos, dove si respira un’atmosfera rilassata e particolare. 
L’avvicinamento a quest’isola è spettacolare: la chora, molto più in alto rispetto al porticciolo, è adagiata con una disposizione particolare attorno alla punta di un rilievo montuoso, sembra che un pasticcere si sia divertito a colare una glassa bianca su di un dolce alla nocciola a forma conica e questa colando si sia solidificata attorno al profilo delle pendici di sinistra e di destra. Le diverse spiagge incastonate tra piccoli promontori rappresentano una rarità tra quelle delle isole greche e invitano a un bagno appena si entra nel golfo con la loro sabbia fina e gli alberi, tutti tamerici a due metri dal bagnasciuga, che offrono un piacevole riparo dal sole; le più vicine al porto poco affollate, quelle più lontane da poco affollate a deserte.

  (Autoscatto). Salire sulle vette delle isole: un momento di solitudine per ritrovare se stessi, così come in mezzo al mare, una sfida con se stessi, così come in mezzo al mare, e un’occasione di studiare vento e rotte di questo grande arcipelago.

Questo golfo e il suo porto, Livadhi, a prima vista sembra molto protetto ma il Meltemi scende in accelerata dal monte e le barche ormeggiate al molo sopravvento rischiano di finire con la poppa in banchina, anche perché a causa del fondale l’ancora qui non tiene. I velisti greci esperti lo sanno bene, in previsione dell’arrivo del vento forte dopodomani alcuni si spostano dall’altra parte del molo, altri decidono di partire domani. Mi dicono anche che in decenni non hanno mai visto Livadhi in assenza totale di vento come oggi: in porto c’è sempre molta risacca e per le stradine della chora ci si deve reggere come per la Bora a Trieste. Ne è particolarmente stupito Gregory: è arrivato subito dopo di me con una sua amica, Olga, gli ho preso le cime, incuriosito dal tipo di manovra che ha fatto per ancorare, un’occasione per attaccare discorso, anche se solitamente non ho bisogno di una scusa, Olga che è psicologa l’ha notato e a cena mi da un’interessante spiegazione sulla mia facilità a socializzare. Non si finisce mai di imparare andando per mare, sempre nuove tecniche da studiare e tesaurizzare, sempre nuovi incontri che stimolano la crescita e arricchiscono la conoscenza.



Scorci dalle geometrie causali di case cubiche bianche e piccole scale, alcune delle quali sembrano finire nel nulla.



La chora è decisamente più spettacolare di quella di Mykonos. Soprattutto vera: non ci sono angoli da cartolina con intorno parti infotografabili, è rimasta intatta, non ci sono macchine né motorini, non ci sono negozi turistici dozzinali ad ogni portone, anzi, solo due e di un raffinato artigianato locale. I soliti vicoli, i soliti scorci dalle geometrie causali di case cubiche bianche, infissi e balaustre azzurre, piccole scale alcune delle quali sembrano finire nel nulla, altre con gradini microscopici, ripidissime che portano ai tetti, potrebbero sembrare tutte uguali queste chora, ma non lo sono, diverse nella loro personale storia, con le loro caratteristiche peculiari, il loro personale fascino. Nella piazza principale, molto piccola, ci sono tre locali in tutto, atmosfera rilassata, musica a basso volume e soprattutto di buona qualità che proviene da quello dove mi siedo: è particolarmente accogliente, sedie e tavolini nella piazzetta verniciati di colore celeste pastello, pochi altri dipinti di bianco in due piccole stanze su due lati diversi della piazza. La parte più alta della chora dove è stata colata la glassa bianca è costituita dalle mure di un castello veneziano, anche questo si è tinto di bianco con una chiesetta incastonata nella parte più alta. Dalla piazza dove arrivano le corriere parte un sentiero che porta alla vetta più alta dell’isola, mi informo ma pochi ne sanno e quei pochi mi dicono che quasi nessuno ci si avventura, in effetti ho osservato per ore l’inizio del sentiero visibile dal paese e non vi ho visto passare nessuno, perfetto. Ogni tornante mi fermo e seguo con lo sguardo le linee che la natura ha disegnato, che meraviglia, ma con delusione mi accorgo che il sentiero, dopo una chiesetta, prosegue verso nord senza salire in cima al monte roccioso. 
Incontro con un pastore sul sentiero che si dipana dalla chora, sembra di recitare una scena di un film di Totò e Peppino: lui parla in greco e io in italiano... Però ci si capisce: “Mia facia, mia raza” (stessa faccia, stessa razza) dicono i greci per indicare tutte le somiglianze che indiscutibilmente ci sono tra loro e noi.

In quel mentre mi volto indietro e vedo giungere un greco in groppa ad un mulo, sta portando dei rifornimenti ai monaci del monastero che si intravede in lontananza e insiste per farmi salire sul suo “mezzo” per un breve tratto spiegandomi tutti i posti che posso raggiungere con quel sentiero, quando vede che spesso con lo sguardo punto la cima del monte mi cerca di dissuadere dicendo “oki, oki”. Poi le nostre strade si dividono, fingo di tornare indietro e quando il greco sul mulo sparisce dietro una curva improvviso un’arrampicata su per le rocce a metà tra il trekking e il climbing, tracciando un sentiero che probabilmente in pochi hanno percorso. In cima alla montagna c’è un piccolo altopiano e sul precipizio una parte rocciosa dov’è un ceppo a forma cilindrica: alcuni nomi sbiaditi scritti con un pennarello nell’agosto del 2011 testimoniano che qualche altro pazzo come me è arrivato qui in cima, ma chissà quanti altri perché non tutti penso si portino un pennarello. Come per magia sento risuonare dentro di me le note dell’inizio dell’Alpensinfonie di Richard Strauss nell’osservare l’orizzonte, lo so non sono sulle Alpi, ma che vastità: da qui si vedono tutte le Cicladi, c’è un po’ di foschia ma dopo un po’ l’occhio si abitua e riesce ad individuare nell’orizzonte le forme di tutte le isole dell’arcipelago, così come nella musica di Strauss l’oscurità della notte lascia il posto all’alba nel grandioso crescendo. Che soddisfazione essere qui, esserci arrivato. Sono completamente da solo, padrone di tutto e di niente. 

Al ritorno, sul molo incontro uno skipper greco che lavora per una società di charter, Giorgos, ha fatto una scelta ancora più radicale della mia: stanco del lavoro d’ufficio si è licenziato e ora lavora solo sulle barche a vela. Il suo bel sorriso è la manifestazione di una serenità derivante da una scelta che lo rende felice pur nell’incertezza derivante dal calo di lavoro a causa della crisi. Dopo cena non trovo più la sua barca, così come quasi tutte quelle ormeggiate sul lato sopravvento del molo, sono partiti o si sono spostati: hanno sentito l’arrivo del vento. E infatti, da lì a poco si scatena l’inferno per le tre barche rimaste su quel lato: mentre sto in pozzetto ad annusare il vento prima di andare a letto vedo la prima delle tre che sbatte in banchina con la poppa, l’ancora ha ceduto sotto le raffiche. Scendo di corsa e in men che non si dica tutti gli equipaggi delle altre otto barche sono sul molo per salvare quelle in difficoltà, una cinquantina di persone di tutte le nazionalità corrono a destra e sinistra per aiutare quella o quell’altra, momenti di grande concitazione e di grandi difficoltà ma dopo più di un’ora di tentativi tutto finisce bene, a parte qualche scalfittura. Un applauso per scaricare la tensione quando anche la terza barca è stata ormeggiata in salvo e dopo qualche chiacchiera tutti a letto. Sono le tre e mezza di notte...
Il Meltemi è tornato! Sarà così per almeno due settimane. C’è chi parte, c’è chi resta. Una delle cose che sto imparando è che è stupido rimanere in porto a guardare qualche coraggioso che va o che viene, si rischia di rimanere fermi per settimane aspettando che cali il vento, e poi andare a motore. Il Meltemi, infatti, se c’è, è sempre forte, altrimenti non c’è. In quasi tutti i porti le raffiche sono più violente che al di fuori, mi sa che conviene studiare le tecniche per ormeggiare e disormeggiare sotto raffica come fanno i greci. Oltretutto quando un porto non è ben protetto come questo mi hanno insegnato che si è più sicuri in mare. In fin dei conti le barche a vela servono per andare a vela, anche con il vento forte, soprattutto quelle solide come Denecia, altrimenti meglio comprarne una a motore. La vela è una metafora: nella vita ci sono quelli che rimangono in porto ad aspettare e ci sono quelli a cui piace osare, senza per questo essere necessariamente dei temerari che non rispettano il mare, la vita.

Ore notturne insonni passate ad aiutare alcuni velisti che si trovano in difficoltà con il ritorno violento del Meltemi: la straordinaria, tacita, costante solidarietà reciproca di chi va per mare, a vela.

Ormai però il Meltemi è troppo forte, Beaufort otto, meglio aspettare che cali almeno a sette o sei. Quale occasione migliore per continuare a frequentare quel simpatico caffè alla chora e buttare giù qualcosa? Il titolo che Maurizio mi ha proposto per una serie di articoli da pubblicare sul suo Mare Magazine mi piace già da subito. Provo a ricucire quel che ho scritto fino ad ora e vediamo cosa ne esce fuori. Il caffè Stou Stratou è da vent’anni di un greco di mezza età che ha voluto rispettare l’atmosfera rilassata che si respira in questa chora. La musica è quella delle colonne sonore del bravissimo compositore greco Manos Hadjidakis. Un ragazzo sui venticinque anni serve ai tavoli, vive ad Atene ma l’estate lavora su questa o un’altra isola per incrementare le sue entrate, finito il turno prende lo zaino e va in spiaggia. A un tavolino nell’interno una coppia di ragazze greche visibilmente innamorate, molto dolci, sorseggiano un drink conversando amabilmente per ore. Impossibile non incrociare il loro sorriso e contraccambiarlo. Altri avventori si aggiungono, di tutte le nazionalità, chi legge, chi scrive, chi scarica mail, scambiando a volte due chiacchiere tra un tavolino e l’altro o più semplicemente un sorriso. Che dolcezza di vivere, che calma si respira in questo posto.
In isole come questa è sicuramente più facile socializzare che in quelle frequentate da gente attenta alle firme da esibire insieme a quel poco che c’è di se stessi. 

Una folla di curiosi osserva Lino alle prese con la manovra del suo Pinko

Qui passano i velisti che hanno per loro indole o per acquisizione una propensione alla conoscenza, di luoghi, culture e quindi di persone. Conoscere è sicuramente uno degli aspetti più interessanti dell’andare per mare. Lino, cordiale e simpatico, con il suo bellissimo Pinko, uno degli ultimi  Comet, di una serie realizzata per competere con gli Swan, fatto senza economia. Un navigatore esperto molto simpatico al quale rivolgo alcune domande per sapere come affronta l’Egeo e subito si instaura una simpatia e stima reciproca. Dovendo rientrare, ha il volo da Atene domani, vuole tentare di partire, nonostante in porto ci siano raffiche molto, molto forti. Escogitata alcune possibili soluzioni per distaccarsi dal molo dov’è ormeggiato all’inglese, poi affronta una difficile manovra con l’aiuto di tutti e un applauso accompagna la sua partenza. Alan e Marie-Christine, una coppia di simpatici francesi in pensione con una barca in ferro molto vecchia e per questo molto affascinante oltre che solida, il Boreal, hanno un carattere dolce, tranquillo e affabile, è un piacere scambiare con loro impressioni culturali, e viene spontaneo scambiare gli indirizzi nella speranza che uno di noi faccia visita all’altro: abitano nella Camargue, vicino a Port Napoleon, da dove è iniziata due anni fa la mia avventura con Denecia. 

 Una sosta al bar per collegarsi in rete

Lo skipper Thierry, francese ma italiano di adozione, capelli biondi scompigliati dal vento, la pelle bruciata dal sole che mette in risalto le rughe attorno agli occhi è con un gruppo di suoi amici italiani, li ho incontrati al bar della chora, e subito è festa nel pozzetto dell’Atlantic 61 che hanno affittato da una compagnia di charter greca. Flavio, Anna e la loro figlia Chiara, Daniela, Stefano (Stiv), Andrea (Brunò) che assomiglia in maniera impressionante al mio amico regista Leo De Berardinis e, coincidenze, scopro che ha lavorato a lungo proprio con lui prima, prima del Don Giovanni di Mozart che ho diretto con la sua regia. Proprio a causa della sua somiglianza Leo ha volte gli ha fatto anche fare la comparsa per apparire “doppio” in scena, uno dei suoi tanti gradevoli vezzi.
Ogni partenza ha un velo di tristezza, lasciare persone che hai appena conosciuto e con le quali vorresti passare più tempo, lasciare il bar della chora con la sua magica atmosfera, ma è venuta l’ora di mollare le cime. Simpatica questa tradizione che c’è in Grecia di applaudire quando qualcuno riesce a partire con queste difficoltà e stamane agli applausi si aggiunge anche una tromba da nebbia suonata come saluto dal Boreal di Alan e Marie-Christine mentre sono in piedi sulla panca del pozzetto a salutare agitando entrambe le braccia: sono riuscito a partire! Ho utilizzato per la prima volta una tecnica che gli skipper greci usano sempre per disormeggiare con vento forte nei porti delle loro isole quando si è ormeggiati con la poppa in banchina: si da volta a una cima molto lunga sulla barca vicina o su una bitta del molo, ovviamente con qualcuno che aiuta da terra, ci si tira fuori lentamente solo recuperando la catena con il salpa ancore, quando la poppa sta per uscire si da un po’ di motore per evitare che finisca su prua e ancora del vicino traversandosi, arrivati sopra l’ancora si ha il tempo di finire di recuperarla ed eventualmente anche di fare le operazioni necessarie nel caso si fosse agganciata a una catena perché c’è la cima che tiene la barca da terra e in caso di difficoltà consente anche di tornare al molo, una volta finito si molla la cima (Denecia ha il pozzetto centrale quindi era sul winch con una gassa) che viene recuperata da terra rapidamente affinché non finisca nell’elica.
Fuori dal porto Beaufort sette, con il vento al traverso, non è una passeggiata, ma neanche impossibile, dopo l’avventura per arrivare a Istanbul ci sono quasi abituato. È talmente bello disegnare le onde con la prua della barca che non riesco a staccarmi dal timone, il vento in faccia, gli spruzzi delle onde che si infrangono sulla barca e ti fanno la doccia rinfrescandoti. Inoltre questo ripetersi senza soluzione di continuità quasi ipnotizza, svuota il subconscio e permette alla mia mente di andare lontano, di potere vedere quello che è vero e quello che non lo è. Ciò che ci vuole oggi...
Rotta per Despotiko, ci vediamo lì alla prossima puntata.
Roberto Soldatini