Storia di un violoncellista direttore d’orchestra oltre che compositore e navigatore solitario

Roberto Soldatini a bordo del Denecia II
Nel mezzo del cammin di sua vita…, la citazione è sicuramente irriverente, ma è d’obbligo per il violoncellista, compositore e direttore d’orchestra qui ritratto comodamente spaparanzato sul lettone della sua nuova casa. Il fatto è che Roberto Soldatini proprio nel mezzo del suo cammino, visto che è nato nel 1960, il 21 febbraio del 2011 ha compiuto una radicale sterzata. Nello stesso giorno, nello stesso luogo, con la stessa persona ha realizzato il suo sogno, ha venduto la sua proprietà immobiliare, nel senso stretto del termine, immobile, che non si muove, e ha acquistato una proprietà che più mobile non si può immaginare. Una barca a vela! Un elegante Moody 44 in vetroresina vecchio di dieciottanni anni, ma non li dimostra, il suo nome dato del suo primo armatore è Denecia II. Una barca solida, pesante, estremamente marina e veloce, armata a sloop-cutter, gli interni sono tutti in teak come non se ne fanno più. Addirittura oggi con quella quantità di legno se ne potrebbero realizzare almeno 3 o 4. Gli interni impressionano per il grado di rifinitura, i singoli mobli e mobiletti, tutti in massello, al loro interno portano la data e la firma del maestro falegname che li ha costruiti. Così se un domani dovesse presentare un reclamo, Roberto saprebbe a chi indirizzarlo!
Il Denecia II ormeggiato in darsena a Fiumicino
Di fatto il nostro musicista, di punto in bianco, senza che avesse mai messo piede su una barca, si “è ritrovato in mezzo al mare da solo, veleggiando senza meta, con una barca come casa.” Soldatini esce giovanissimo dal Conservatorio di Santa Cecilia, a soli ventitré anni si è esibito in a solo di violoncello di fronte al Papa Giovanni Paolo II in occasione del concerto nella Sala Nervi. “Una cosa – ricorda oggi –  che, a ripensarci anni dopo, ci si sente ‘tremar le vene e i polsi’.





Ma sul momento non me ne sono reso conto pienamente: ho vissuto tutto con molta naturalezza, forse perché ero giovane. Già durante gli anni del Conservatorio – continua – mi capitava di suonare a dei concerti e di ritrovarmi a stretto contatto con nomi altisonanti del mondo della musica, classica e non. Ho lavorato e studiato con Leonard Bernstein, uno fra i più grandi direttori d’orchestra del Novecento, dal quale ho imparato tantissimo. Nel campo della musica leggera ho collaborato, fra gli altri, con Renato Zero, di cui mi ha colpito la grande professionalità (in due anni di tour non ha mai steccato una nota). Insomma, posso dire di aver avuto davvero molte occasioni importanti.” Una carriera ricca di successi come insegnante di violoncello al Conservatorio e come direttore d’orchestra, approdando recentemente alla composizione con l’opera lirica da camera dal titolo Come le maree sotto la luna.
“A cavallo tra gli anni settanta e ottanta ho vissuto un’esperienza davvero straordinaria, racconta, ma sul momento non me ne rendevo conto pienamente, forse perché all’epoca fare carriera era più facile rispetto ad oggi. La musica mi aveva preso totalmente, assorbiva tutte le mie energie… respiravo con la musica e la musica respirava con me. Suonare il violoncello mi dava l’opportunità di provare emozioni straordinarie, di conoscere persone meravigliose, di approfondire culture diverse, di entrare nel mondo del sensibile. E, come ha scritto Victor Hugo, la musica esprime ciò che non può esser detto e su cui è impossibile tacere.”
Questa brevissima sintesi dei primi anta di Roberto fa capire, o forse no,  come sia possibile realizzare un sogno. Fatto è che nel giro di soli due anni, detto fatto prende la patente nautica, detto fatto diventa armatore, detto fatto diventa navigatore solitario Incredibile ma vero!
Il tempo di armare e modificare il Denecia II secondo le sue esigenze e, detto fatto, dopo appena quattro mesi, Roberto molla gli ormeggi per il suo primo fantastico viaggio in solitario per lidi lontani… Esattamente il 3 luglio 2011 si muove dalla darsena di Fiumicino per fare rotta su Istanbul dove arriva ventidue giorni dopo, quasi un record! “Non bisogna partire con l’idea di trovare quel che raccontano, ma scoprire quello che trovi”, afferma Roberto “perdendosi tra le isole greche” quando riapproda a Fiumicino il 29 ottobre
E si prende anche il lusso, detto fatto, di raccontare questa storia in un libro. Il titolo, Diario di bordo di mare, di musica, di vita di no che ha mollato tutto (o quasi), è provvisorio perché non è stato ancora pubblicato. Da qualche tempo la bozza è sulla scrivania di una paio di editori che dovranno decidere se merita di andare in libreria. Vedremo! Intanto posso dire, per averlo letto in meno di una settimana, che si tratta di un testo intrigante, non perché intrighi ma nel senso che interessa, incuriosisce, attrae. Un terzo delle pagine servono per raccontare il percorso dei primi cinquanta di Roberto, per conoscerlo e per apprezzare il suo modo sincero e disinibito quando parla della sua intimità, del profondo rapporto che ha avuto con i genitori.
I restanti due terzi sono un vero e proprio diario di bordo, dove descrive, giorno dopo giorno, luoghi, gente, colori, insomma l’immersione totale avuta vivendo con gli elementi per lui sconosciuti fin a quel momento.
Quasi un portolano, non arido, dove le emozioni e il racconto prevalgono sulle notizie tecniche.
Il libro ha un bel corredo di fotografie, io ne ho fatto una selezione e Roberto ha scritto le didascalie. Il modo migliore per capire di cosa stiamo parlando. O no?
Qui sopra, la carta nautica con la rotta, andata e ritorno, seguita da Roberto: Cinquemila miglia a vela in giro per il Mediterraneo navigando da solo, e in ultimo con una gamba e mezzo (una era ingessata!).
L’arrivo a Istanbul in barca a vela! Nel Bosforo era come una giostra: mentre bordeggiavo per riconoscere le figure dei monumenti più celebri centinaia di traghetti attraversavano incessantemente per collegare la sponda europea con quella asiatica, mandando segnali sonori per farmi scansare, e dai loro ponti i turisti fotografavano la mia barca: in effetti era l’unica che procedeva a vela lì in mezzo. Avrei voluto continuare a fare altri giri sulla giostra, ma dopo più di tre ore purtroppo era arrivato il momento di uscire dal Bosforo, anche perché era sopraggiunta una motovedetta a “ricordarmi” che lì è vietato andare a vela... Ops! Ero da solo, venivo da Roma, ero in preda all’euforia, hanno capito e mi hanno lasciato andare: “Go!” Prima di allontanarmi dalla giostra ho scattato un’ultima foto: il sole che tramontava sulla moschea. Nella permanenza nella città turca ho visto diverse foto simili, ho mostrato la mia a un fotografo e mi ha detto che c’è solo un brevissimo periodo dell’anno in cui si può scattare quell’inquadratura e che bisogna essere fortunati che venga così...
 
Un’amica mi ha chiesto di fotografare la Sultanahmet Camii, conosciuta come Moschea blu per il colore predominante degli splendidi mosaici che tappezzano le sue alte pareti, ma qualsiasi inquadratura provassi mi sembrava di copiare una delle tante cartoline, così ho preferito spedire una prova tangibile del mio ingresso nella moschea.
 



 All’arrivo in Grecia, in vista di Lesbos, un gruppo di delfini ha fatto una danza di benvenuto davanti alla prua, proprio dove la legenda narra che il citarista Arione di Lesbos venne salvato da un delfino che amava la musica. Un caso che i delfini erano proprio li, un caso che erano venuti incontro alla barca di un musicista, un caso che in una delle tante foto scattate sia riuscito a cogliere l’attimo delle loro evoluzioni: fotografare i delfini è molto difficile, non sai mai in quale punto emergeranno e lo scatto arriva “puntualmente in ritardo”.


 Pserimos: solo una ventina di case, una spiaggia con sabbia bianca acqua cristallina, niente strade e le tre macchine che ci sono non hanno la targa. Un’isola da sogno... finché non sono comparsi ben sette caicchi, sette cavalieri dell’apocalisse, che hanno vomitato qualche centinaia di turisti del tipo “mordi e fuggi”, quelli che visitano una serie di baie in una giornata fermandosi massimo un’ora ciascuna. Per fortuna, così come sono arrivati se ne sono andati e la pace è tornata nel villaggio dormiente, come se nulla fosse accaduto.



Nisiros, l’isola vulcano, mi ha stregato per la sua atmosfera rilassata, raramente ho visto un angolino del mondo dove si respiri questa dolcezza di vivere. Il vento spirava stranamente verso l’isola da tutte le rotte, così che ogni volta che una barca tentava di partire veniva riportata nel tranquillo e riparato porticciolo come a non volerla lasciare andar via.














Le geometrie delle linee del Ponte di Patrasso dedicato a Poseidone si incontrano con quelle di una nave da crociera al suo passaggio. Dopo una navigazione difficile, con una gamba e mezzo (ingessata) alla vista del ponte tutto si placa: i miei amici greci mi avevano detto che Poseidone sarebbe stato con me!






La finestra di tempo favorevole per raggiungere Lefkas dopo il periodo forzato di riposo ad Atene per la frattura si sta per chiudere, in tarda serata è prevista in arrivo dall’Italia una perturbazione, si vedono già le nuvole in lontananza provenire da est, dopo poco vedo i lampi... poi odo i tuoni... poi comincia a gocciare… Ed eccolo il temporale, a tre miglia dall’ingresso del canale di Lefkas, scendo sottocoperta, metto la gamba ingessata in una sacca, taglio i pantaloni di una cerata per poterli infilare, salgo sopracoperta e trovo la grandine. Grazie! Ci voleva proprio questo per stare al timone... Mi è venuta anche la febbre e le mie forze si sono quasi esaurite. Finalmente avvisto la marina, chiamo ma nessuno risponde, né al canale del vhf, né al numero di telefono fisso. La visibilità è ridotta a pochi metri, individuo a stento un posto libero e mi c’infilo di poppa, cerco di legare la barca in qualche maniera a quella vicino per fermarla ma non è facile con il gesso e scivolo più di una volta, poi dalla fitta pioggia emerge dal nulla una figura sul pontile con un impermeabile scuro di quelli dei marinai di un tempo, salta senza dire niente sulla mia barca da poppa, prende le cime e gli da volta alle bitte sul pontile, poi va a prua per fissare il corpo morto ma non ho visto come l’ha preso, è andato troppo spedito per averlo portato da poppa, non ho visto neanche il suo volto, il cappuccio lo copre fino alla bocca il che però mi permette di vederlo sorridere un attimo prima che svanisca, così com’era comparso, senza dire una parola, nel nulla. Dopo dodici ore di sonno ininterrotto mi reco agli uffici della marina per ringraziare l’ormeggiatore che mi ha aiutato ma mi dicono che ieri sera non c’era nessuno ai pontili a causa di una non meglio specificata urgenza. Ma allora era un fantasma? Sarà stato il delirio delle febbre alta? E se così fosse, come sono riuscito ad ormeggiare? 
L’ancora comincia a dare segni di scarsa tenuta alle forti raffiche provenienti da nordovest che scendono dalla montagna nel porto di Astipalea e in pochi minuti si scatena l’inferno: le barche si appoggiano l’una contro l’altra e qualcuno finisce con la poppa in banchina, l’unica soluzione è la fuga! Mollo gli ormeggi, motore avanti tutta, elica di prua e riesco a venirne fuori senza danni. Tenterò di raggiungere il Vathi (fiordo) che ho visto sulla carta nautica all’interno della punta dell’altra ala dell’isola a forma di farfalla. Devo fare otto miglia di notte con mare molto mosso al traverso e vento da nordovest di trenta nodi. Le onde grosse al buio fanno paura, sollevano la barca e quando sono passate dall’altra parte, illuminate dalla luna, mi rendo conto di quanto siano alte. Un’onda più arrabbiata delle altre faccio appena in tempo a vederla che si frange contro il lato sinistro dello scafo, o immediatamente prima, non so, e passa sopra la barca, il pozzetto è pieno d’acqua come una vasca da bagno e io sono totalmente zuppo. Finalmente arrivo allo stretto ingresso del fiordo, che imbrocco a stento verso le ventidue, il mare e il vento via, via che mi addentro si placano, sinistra scorgo una luce in un fiordo interno al fiordo. All’improvviso una calma surreale, il vento da trenta passa a zero e il mare da agitato passa alla superficie calma di un lago. Magia. Tutto si placa, anche le mie ansie. La luce intravista in lontananza proviene da un piccolo ristorante, dalle finestre illuminate si intravedono le figure di tre o quattro persone, le sento ridere e scherzare in lontananza, ma non sembra si accorgano del mio arrivo, scorgo un piccolo molo in cemento con due piccoli pescherecci e uno spazio libero della misura esatta della mia barca! Ormeggio facilissimo, in totale assenza di vento, mentre fuori c’è l’inferno sono approdato in paradiso. Una calma surreale, la barca è più ferma che in qualsiasi porto io sia mai stato, non un movimento, non uno sciabordio, sembra sospesa nel nulla, come questo posto. Le voci dal ristorante si sono spente e prima di addormentarmi sento il suono dei campanacci provenire dalla collina.
Terzo giorno ad Amorgos, ancora motorino, ancora nuotata in acque cristalline, ancora strade vuote, ma non tanto: curva, macchina contromano, frenata, ghiaiolino, ambulanza, ospedale.
Dopo migliaia di miglia in barca a vela da solo nelle quali non mi è successo niente vado a farmi male come un coglione, in motorino.







Copertina del libro
Forse questa foto è poco adatta a un “diario di bordo”, ma è di sicuro la più bella che io abbia mai scattato, tanto che quasi trent’anni fa ha vinto un concorso, e comunque i miei genitori che vanno verso la luce assumono ora che sono scomparsi un significato particolare.